La guerra è una parte importante dell’opera di
Jamel Shabazz (New York, 1960), soprattutto dopo il grande shock del Nine Eleven, e rientra appieno nel suo più ampio raggio d’azione, rivolto anzitutto alla documentazione della periferia newyorkese, iniziata negli anni ’80. La riscoperta della periferia, simbolo di quegli anni e avvenuta nell’East Coast molto prima che da noi, presuppone il suo inserimento, innanzitutto a livello culturale, nel cuore della società e non ai suoi margini: questo è quanto le fotografie di Shabazz testimoniano.
Non sono scatti rubati tra una folla indifferente ed estranea, ma nascono fra quelle strade e quelle persone. Shabazz è uno di loro e al suo cospetto la comunità afroamericana si mette in posa e lascia emergere di volta in volta aspetti diversi: l’amore, il divertimento, la musica e il ballo, la street art ma anche la violenza, gli arresti e le notti in cella.
Protagonisti assoluti sono ragazzi e ragazze che si fanno riprendere perché quello scatto rappresenta una nuova affermazione e conferma della loro immagine, quindi di tutto ciò che essi rappresentano e vogliono far sapere di sé. Non si tirano indietro nel mostrare i loro tatuaggi contro la polizia o pose volgari, le gare di motociclette ai limiti della legalità e i loro arresti. Sul florido pancione di una donna incinta spicca un adesivo con la scritta
God made me queer, esibizione orgogliosa e fiera di una condizione sociale assunta come un dovere, una missione da svolgere perché anche lei, come la donna con la bandiera, è senza volto, intercambiabile con quello di qualsiasi “mamma del Bronx”.
Non c’è denuncia né condanna, tanto meno una visione moralistica. Solo la volontà di documentare quella quotidianità che, attraverso i decibel della musica hip-hop, è entrata anche nel nostro immaginario e nella nostra memoria collettiva come l’emblema della Periferia con la “P” maiuscola, appunto quella di New York City. Anzitutto melting-pot culturale e non disagio sociale, come retoricamente trasmettono i media.
Shabazz ha portato a Milano non solo le sue opere, ma una fetta di quel mondo, allestendo per il vernissage un vero e proprio happening, fotografando i presenti e chiamando come dj
Aaron Sharp, writer del Bronx, ad animare la serata. Ha inoltre insistito per un incontro con i ragazzi di un liceo artistico della città e ha rilasciato un’interessante intervista a Global Radio Milano, legata al centro sociale “Il Cantiere”. Nel suo soggiorno meneghino Shabazz ha inoltre realizzato una serie di fotografie della città, colorate bancarelle di frutta e tecnologiche carrozzerie, che probabilmente verranno inserite nel suo prossimo libro. Si dice un libro di viaggio.