Artista non è la definizione adatta per Enrico Baj (Milano 1924 – Vergiate 2003). Fu piuttosto un intellettuale, che utilizzò l’arte come linguaggio per riflettere sull’uomo del ‘900. Il pericolo nucleare, le fantasie di un’invasione extraterrestre, l’avanzare di un gusto piccolo borghese e kitsch, la spersonalizzazione dell’uomo nelle città, sono alcuni dei temi che Baj ha affrontato. Come? Con ironia e impiegando tecniche sperimentali, dal dripping al collage con materiali di recupero. L’arte-pensiero di Baj scopre Jarry, il suo grottesco Ubu Re (fonte d’ispirazione per i generali) e la patafisica, la ‘scienza delle soluzioni immaginarie‘ e delle leggi che governano le eccezioni.
La mostra ripercorre cinquant’anni d’attività, dal nuclearismo (nel ‘51 Baj fonda con Sergio Dangelo il Movimento Nucleare) ai generali, le Modificazioni, le sculture idrauliche, totem e maschere. Le opere sono presentate per temi, suddivisione che abbozza una scansione cronologica.
Baj esordisce interessandosi di nucleare, di energia. Sono gli anni in cui il dibattito è vivace dopo Hiroshima. Energia, forza distruttrice e creatrice al tempo stesso, rappresentata con il dripping e larghe chiazze di colore puro, che si sfaldano componendo figure antropomorfiche, teste appoggiate su scheletri sottili; ma anche una sorta di paesaggi, Dipinto Nucleare (1952) e Montagna su tappezzeria rosa (1958). In essi il colore costruisce un universo deserto e solitario, definito da tinte sgocciolate e da un gesto forte, che schizza il colore sulla tela. Dal dripping all’arte gestuale, ma Baj è personaggio che sfugge ad ogni classificazione. Non fu surrealista, né pop, né tubista (anche se i manichini degli anni ’80 echeggiano Leger). Fu uomo di grande cultura artistica e letteraria che attinse a Picasso e Cezanne, a Proust e Jarry per creare un linguaggio personale.
Ampio spazio in mostra è dedicato ai generali, rappresentazioni-denuncia contro ogni tipo d’aggressività. Eseguiti con collage e pittura, medaglie, passamanerie hanno occhi sgranati, realizzati con rotelle del meccano (Parata a sei 1964) e bocche spalancate, feroci, visibilmente stupidi. In un saggio in catalogo Martina Corgnati si interroga sul perché Baj abbia scelto proprio i generali come immagine-simbolo della brutalità e formula due ipotesi; in Baj (che era avvocato) “ribolliva l’antico antimilitarismo dada… insubordinato a tutte le forme di potere” e poi l’amore per lustrini e medaglie “…e non c’è nulla di più luccicante e decorato… di una bella divisa da generale“.
Accanto ai generali la mostra propone le dame, loro corrispettivo femminile; Baj si sbizzarrisce con brillantini, passamanerie, perline e cristalli di vetro. Collages nei quali l’invenzione prevale sull’objet trouvé, che scompare in un insieme compatto di grande effetto cromatico e compositivo.
Il percorso si conclude con le ultime invenzioni dell’artista, che ritorna negli anni ’80 alla pittura, per denunciare con i Manichini la disumanizzazione della civiltà. Grattacieli anonimi si curvano su se stessi, escludendo il cielo e imprigionando una folla di manichini-automi privi di identità (Bagnanti 1987). Sono invece ispirati ai personaggi della Ricerca di Proust i Guermantes, raffinati collage, ritratti in miniatura, colorate tessere di domino, che si evolvono negli anni ’90 nei totem e nelle maschere tribali che chiudono la mostra, ultimo allarme di Baj contro “i nuovi barbari della nostra contemporaneità“.
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