Alla seconda personale presso la galleria Shammah, dove aveva già esposto nel 2005,
Walter Niedermayr (Bolzano, 1952) porta avanti la propria ricerca nel campo della percezione e della visione al di fuori di ogni logica puramente documentaria. La fotografia si fa mezzo di espiazione della luce, il bianco avvolge abbacinante e soporifero la superficie, trasformando e stravolgendo l’oggetto del guardare.
Sebbene il corpo della mostra comprenda lavori differenti, in parte dedicati alla ormai famosa ricerca sui paesaggi alpini, in parte tratti dalla serie inedita
Bildraum in collaborazione con gli estrosi architetti giapponesi
Kazuyo Sejima e
Ryue Nishizawa, noti come
SANAA (sono loro che hanno realizzato il New Museum di New York), il rigore e l’evoluzione armonica del percorso è salvaguardato dallo sguardo dell’artista, che struttura e uniforma i paesaggi. Siano essi scenari alpini, imbiancati di neve e ghiaccio, oppure architetture urbane, l’occhio di Niedermayr interpreta solitario ogni tipo di luogo attuandone una metamorfosi spaesante.
Il candore quasi fastidioso delle cime innevate fagocita la presenza umana che, pure, non manca mai. Puntini colorati e dispersi segnalano la vita microscopica dell’uomo a cospetto di una natura maestosa. Non vi è giudizio ma semplice constatazione: la sensazione che fatichiamo a percepire dalla nostra posizione di viventi che peregrinano nel mondo, Niedermayr la restituisce rendendoci spettatori da lontano della vita. Paesaggi lunari che sembrano a malapena reali per la sconcertante solitudine e la potenza immobile che emanano, superfici incise di alberi e arbusti assopiti dal freddo, case sparse come presenze fantasmagoriche si mischiano e richiamano le vedute architettoniche ispirate al lavoro del duo giapponese.
In
Bildraum le pareti di vetro si smaterializzano determinando un effetto opaco e soffuso della visione: traspare impreciso il paesaggio esterno, che sembra convivere e dialogare con le linee rette divisorie degli ambienti interni, in cui si posiziona l’obiettivo della camera. Come in un gioco di specchi, non tutto ciò che appare è tale, né tutto ciò che è compare. Soggiogati dall’occhio plasmante della macchina fotografica, assistiamo a vedute ricamate dalla tendina in pizzo bianco della finestra che ostruisce la visione sfumata dell’esterno, lasciandoci presagire soltanto ciò che non è dato vedere. Oppure, il paesaggio ritorna grazie al riflesso tremolante su un edificio.
Una visione mai diretta, dunque, ma filtrata attraverso gli spazi. Come se la luce, attraversando vari media e circostanze, producesse un’anamnesi del proprio percorso, in conflitto con ogni tipo di presunta oggettività della visione.