L’idea della
Danse macabre parte da una poesia scritta nel 1376 da Jean de Lèvre dopo che due anni prima era guarito dalla peste. I versi rappresentano la morte che, ballando, chiama a sé progressivamente il papa, l’imperatore, il re, il dotto, il chierico, il monaco e la suora, senza distinzione alcuna. È certo: nell’elaborazione non poteva aver influito l’esperienza della Grande Peste Nera, che avrebbe travolto l’Europa coi suoi indicibili orrori solo due anni dopo. L’
humus da cui trae linfa si origina molto più indietro nel tempo, radicato com’è nella memoria ancestrale, a certe credenze popolari secondo le quali a mezzanotte i morti ballano nei campisanti, cercando di attirare i vivi a far parte delle loro paurose schiere. Riuscendovi o no, questo resta un enigma.
Tra i primi ad abbracciare il tema e a occuparsi della sua diffusione furono i francescani, ai quali, come si sa, era cara tanto Madonna Povertà quanto Sorella nostra Morte corporale. E dalla metà del Trecento in poi, per far capire alle masse che la vita è solo un bene transitorio e che la felicità ci aspetta altrove, non esitarono a far massiccio uso dei volgari. Del resto, recandosi a predicare in Oriente, i francescani trovavano spesso sulla loro strada i buddisti, presso i quali le ridde di morti e i colloqui tra monaci e cadaveri erano popolari già da secoli. I seguaci del “poverello di Assisi” che lì andarono in missione forse non fecero altro che “importarli” in Europa, dove sarebbero attecchiti grazie al clima fertile provocato da innumerevoli lutti, conditi nel culto dai temi della Passione e della Via Crucis, e nella predicazione dalle visioni sull’Apocalisse, il Purgatorio e l’Inferno.
Il successo della danza macabra conobbe il suo apice nel XV secolo, quando i “girotondi” di scheletri completati da scritte e dialoghi fecero la loro massiccia comparsa sulle mura dei cimiteri e delle chiese di tutta Europa, in particolare in Francia, in Germania e nel nord Italia. E qui il pensiero corre al ciclo di affreschi dell’Oratorio dei Disciplini di Clusone, in provincia di Bergamo, oppure a quello di Pinerolo.
Oggi cambia lo scenario, ma la paura è sempre la stessa. La vita si è allungata, ma tutti hanno sempre il terrore di morire. Si muore quasi sempre in ospedale e non più nel letto di casa, e ogni contatto con la Signora in nero è bandito quasi a esorcizzarne, espellendola, la presenza. Ma lei resta sempre lì. E ci aspetta. Ce lo ricordava severo
Bergman nel
Settimo Sigillo, ce lo ribadiva Totò col sorriso sulle labbra con
‘A Livella. Ce lo rammenta ora a Bergamo e nel territorio orobico la salutare rassegna, promossa dalle fondazioni Adriano Bernareggi e Benedetto Ravasio,
Danze Macabre. La figura della Morte nelle arti: mostre, rassegne e incontri, in cui arti visive e sceniche, popolari e colte, si raccolgono intorno al Tema sempiterno.
Meditazioni intriganti, come le interpretazioni di
Giovanni Frangi sui brani escatologici del Vangelo di Matteo (la mostra all’ex Oratorio di San Lupo si intitola
MT2425, citandone i versetti), oppure il percorso sul libro biblico del
Qoelet (ossia l’
Ecclesiaste) a cura di Giuliano Zanchi.
Nei (forse) ultimi singulti del consumismo sfrenato e dell’apparente onnipotenza del singolo, con la crisi alle porte o già in casa, ci si ferma a pensare e a riflettere. E se il luccicante baluginio del nostro mondo fatto di cose non fosse altro che uno specchietto per le allodole? Un tentativo patetico di sentirci vivi, quando forse per vivere davvero servirebbe solo ricordarsi che prima o poi, la Nera Signora conquisterà anche noi.