Eva Rothschild (Dublino, 1971; vive a Londra), fin da quando ha imparato l’arte dell’intreccio, crea simulacri. A Milano presenta cinque nuove icone, cinque nuove sculture che imitano ed evocano le sembianze di dei-mai-nati.
Attraverso le sue eleganti formule compositive, Eva Rothschild esplora la sottile relazione che corre tra il sistema oggettivo dei propri manufatti e le connessioni trascendentali che questi emanano. Sacralità, spiritualismo, intenzionalità e caso rendono le sue sculture un tramite formale che avvicina l’arte a un equivalente territorio esplorabile, un universo costellato di ricordi e credenze dal tono ancestrale. In questa vertiginosa caduta verso l’alto, l’artista irlandese abbandona senza giustificazioni gli elementi dell’utilità e della verosimiglianza, mancanze che nelle sculture si trasformano in arguti ricettacoli sentimentali. Materiali-immateriali che irradiano esplicite atmosfere nonsense cariche di metafisicità.
Gli echi formali di questi lavori sono facilmente riconducibili alle invenzioni estetiche del minimalismo brut degli anni ‘60 e ‘70; anche se il profilo in apparenza patinato e impersonale delle forme scultoree resta imbevuto di una rozzezza volutamente scalfita e lasciata impressa in maniera imperitura. L
a vera forza di questi cinque totem (una colonna con tre teste che sembrano galleggiare nell’aria, un guscio cavo, una torre precaria composta da una serie di ovali impilati e ricoperti di perline, un elemento circolare a muro e una struttura lineare ramificata) resta la loro particolare aura tattile, che li rende catalizzatori di luce. La superficie di ciascun lavoro, infatti, è dotata di una graziosa avidità che trattiene, sulle superfici irregolari degli oggetti, una tensione contemplativa più che emotiva. Un invito alla cancellazione del già-visto in favore di un suo netto superamento.
Leggerezza, equilibrio, contrasto, durezza e cromaticità accompagnano dunque la terza personale italiana di Rothschild, una mostra composta da vere e proprie “creature della materia” a due o a tre dimensioni. Utilizzando materiali artigianali e raminghi come lustrini, cuoio, legni grezzi e papier maché, l’artista rivela appieno la propria incomprensibile manualità, svelando anche il proprio senso per la stasi e il bilanciamento dei volumi.
Il risultato è l’assemblaggio di opere esili seppur dotate di misura, austerità e rigore. È significativo infatti che, ad aprire la mostra, si trovi una stele sottile, composta da miriadi di strisce di cuoio, frange di diverse misure che assumono i colori del bianco, del rosso e del nero, dal soffitto fino al pavimento. Una fontana artificiale che meticcia e richiama simboli di natura tribale. Poco distante, invece, un’architettura ramificata è dotata d’un equilibrio impossibile, che reprime la forza di gravità in favore di una visione dell’opera in continua ascensionalità.
Due cornici, questi due lavori, che inscrivono lo spazio retrostante, come un ventre eccessivamente vuoto, bianco e piatto.