Hannah Dougherty (Usa, Philadelphia, 1980) è alla sua prima personale italiana. Ma la ragazza non fa fatica a lasciare un’impronta. L’artista americana usa gli spazi espositivi come se avesse a disposizione un grande, intimo e architettonico, diario tridimensionale.
I lavori che la Dougherty espone in galleria appartengono a due serie e a due tecniche differenti che portano avanti un percorso iniziato alla Berlinische Galerie Landesmuseum für Moderne Kunst. Nella realtà di oggi, quella milanese, al pubblico, sono esposti un buon numero di disegni, su tela e su carta, abbinati a due installazioni che completano l’ambientazione surreale dei paesaggi alle pareti, ravvivando gli spazi.
Il tratto a matita dell’artista è accademico, quasi didascalico, scende bene lungo le superfici delle forme, accompagna con intensità alcuni punti-luce e infine spande compatto lungo i profili dei soggetti. Le sue figure, umane e animali, sono ricorrenti, su tela e carta da lucido. La riproduzione di questi mondi, in verità spenti e sbiaditi, si trasforma seguendo spontaneamente le applicazioni fatte anche su oggetti tridimensionali.
Il modo della Dougherty di assemblare corpi, nuvole, lupi, tigri ed elementi totalmente estranei al contesto di partenza -come mazzi di etichette, bottiglie di birra o palloncini- ricorda, in parte, il moto sovrapposto di un pittore come Gabriele Arruzzo (Roma, 1976). Un miscuglio di forme e oggetti in-disturbato, visionario ma in apparenza casuale. Eppure, basta osservare un attimo di più i lavori, e risulta semplice, quasi naturale, distinguere -sempre- una sottile fretta irruente che cortocircuita la monotonia della composizione figurativa.
Questa alternanza visibile tra omogeneità e straniamento produce fra le tele un’energia tiepida, piacevole, termine questo che, si spera, possa esser speso senza pretese assolute. Sembra che lupi a spasso in città, uomini con teste di cavallo o lattine giganti stese vicino a cerbiatti siano, per un distratto automatismo ottico, diventati un linguaggio. Una lingua a metà tra il tedesco e l’americano. Un vizio di forma che vive di fantasmagorie. Un codice per la lettura che pesca dal serbatoio di un’infanzia tipica americana. Una storia inondata di sicurezze e protezioni. E poco importa che le frequenti applicazioni siano collages scritti, stampati su etichette di prodotti, oppure intagliati in giganti nuvole appese a corde. Quel che più lascia sbalordito è questo gigantesco mondo muto che si mostra nudo. Questa cortina compatta che recupera un’idea di unità e di sheltering, proprio là, nel difficile luogo della memoria. In quella palude di sabbia che torna a galla portando con sé tutto eccetto i colori forti e vivi di quando si è stati bambini.
E forse è questo l’effetto che si deve avere davanti a un progetto come The Gartenhaus. Quel giardino segreto dove esterno e interno e ancora esterno si sfoderano in continuazione, tra uccelli che non hanno a casa e businessmen con nuvole al posto della testa.
ginevra bria
mostra visitata il 31 maggio 2007
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