A lui piace immaginarsi come uno stravagante chef. Uno di quelli che dagli avanzi riescono a tirar fuori insospettabili manicaretti: il mago postmoderno dei fornelli butta in pentola di tutto e di più. E la zuppa è servita. Per
Tal R (Israele, 1967; vive a Copenhagen) fare pittura equivale a “
preparare dei lunch-box”, succulenti panieri-sorpresa in cui scovare armonie di rimasugli iconografici. Non è un caso che la parola “kolbojnik” ritorni più volte nel suo percorso. Il termine israeliano indica proprio gli avanzi di un lauto pasto, quel che resta in tavola e che si può ancora riciclare.
Ironia, delicatezza naïf, energia ludica, accesa fantasmagoria contraddistinguono la produzione di uno tra i più interessanti pittori-scultori attivi sulla scena internazionale. La pulsione compositiva di Tal R lo spinge a prelevare frammenti della pop culture -videogame, cinema, fumetti, tv- mescolandoli con scene del quotidiano, derive fiabesche, pseudo-decorativismi. Tra prosa e poesia, tra cronaca e mito, i suoi dipinti danno vita a scene complesse in cui lo spazio si appiattisce e s’infittisce, approdando a un’astrazione famelica, esplosiva, gestuale. L’immersione tra le vicende delle culture popolari pare dischiudere quell’armonia segreta che regola i rapporti tra anima e cosmo: la realtà non è che il calderone multiforme da cui l’artista attinge storie e segni, ingredienti per immaginifiche misture da digerire con gli occhi.
Sorta di obelischi sacri, giocattoli primordiali o simulacri fallici, le coloratissime sculture di Tal R -fatte con stoffa, ceramica, metallo, oggetti di recupero- uniscono raffinatezza e semplicità, sperimentando l’apertura su una temporalità ciclica e anti-storica: sono forme eterne, nutrite di purezza universale. Così le tele, sipari dinamici costruiti con una rigorosa palette cromatica (sempre e solo nero, bianco, rosa, verde, rosso, giallo e marrone), accolgono densi strati di colore per raccontare la verità di un mondo candido come un libro di fiabe, ma caotico e violento come l’esistenza.
Anche
Luca Trevisani (Verona, 1979; vive a Milano e a Berlino) strizza l’occhio a suggestioni dal sapore infantile, abbandonandosi all’irresistibile potere del gioco, della leggerezza, del
crossing tra confini labili. Al piano superiore della galleria allestisce un teatro minimale consacrato alla precarietà: carta, cortine di cellophane, bambù, nylon, resina, compongono piccoli oggetti e installazioni sorretti da delicati equilibri tra forma e spazio. L’energia combinatoria che muove i flussi della materia svela dinamiche proprie della fisica, della matematica ma anche dell’estetica fondata sul frammento.
Caricando un po’ troppo la scena, Trevisani rischia a tratti di smorzare la forza dell’infinitesimale e del metamorfico insita nel raffinato progetto. Un ancor più deciso vuoto sintattico meglio avrebbe sostenuto l’avventura condotta lungo quei “
boneless boundaries” su cui l’artista rintraccia i codici nascosti di una natura in transito, scandita da irrequiete geometrie.