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26
aprile 2010
Primo appuntamento per il ciclo Six Way sto Sunday per Peep-Hole, progetto a cadenza
annuale che coinvolge istituzioni museali nella realizzazione di mostre e
progetti, diventandone “project room dislocata” per un certo periodo. In questo
caso, con la mostra di Alicja Kwade (Katovice, 1979; vive a Berlino), la sua prima personale
in Italia, il partner chiamato in causa è il Museion di Bolzano.
Attraverso lo spioncino, lo spettatore è invitato a
osservare un’unica grande installazione, Broken Away from Common Standpoints, del tutto inedita, soprattutto
se comparata ai trascorsi dell’artista. Torna, infatti, a essere protagonista
la figura umana, grande assente nelle opere di Kwade, qui replicata
all’infinito e rappresentata da decine di porcellane, ciascuna proveniente da
culture differenti, epoche lontane, stili eterogenei. Oggetti di raffinata
fattura incontrano prodotti di scarso interesse, di poco valore. Soggetti
aristocratici, ninfe, dee si accompagnano a ballerine, statuette povere, figlie
della tradizione popolare.
La loro diversità, tuttavia, si perde nella visione
complessiva dell’impianto. Lo sguardo è sedotto dalle curve dei loro corpi e
dalla policromia che li avvolge, ma soprattutto è intento a osservare lo
slancio rituale della danza in cui sono tutte coinvolte, con le braccia che
tendono verso l’alto e gli occhi – disegnati dall’artista – che guardano al
cielo.
In un momento di profonde fratture, di ostilità verso
l’altro, di grande introversione anche nelle culture più civili, lo spettacolo
dell’umanità, in tutta la sua bellezza e complessità, si mette in mostra
nell’opera di Kwade. Le statuine diventano così il simbolo di un mondo in
continua trasformazione, attraversato da profonde nevrosi, ma anche
affascinante e seducente, cornice di storie remote o recenti, che giungono da
ogni dove e che offrono nuovi, possibili incontri con la vita.
È quest’ultima, infatti, il filo conduttore dell’intero
progetto, sviluppato con una chiave spirituale che non può non far pensare,
nelle forme, nel moto ascensionale, nella carica erotica diffusa, all’estasi di
Santa Teresa d’Avila di Gian Lorenzo Bernini. Che questa si riveli nel
presente, o nelle memorie del passato, non conta. Lo scorrere del tempo è
un’ulteriore manifestazione dell’esistenza e delle sue coinvolgenti, infinite,
implicazioni.
L’accezione metafisica dell’opera della giovane artista
polacca è accentuata dai suoi specchi prossimi a sciogliersi (Vom
zukünftigem Hintergrund unter anderer Bedingung betrachtend, 2010) che completano
l’installazione come persistenze della memoria contemporanee, alterando il
senso dei corpi in movimento, sublimandolo nel flusso infinito dell’esistenza.
Tutto scorre: le lancette, l’immagine liquida delle
figurette allo specchio, le idee dell’uomo, i suoi progetti, le pagine del suo
libro.
annuale che coinvolge istituzioni museali nella realizzazione di mostre e
progetti, diventandone “project room dislocata” per un certo periodo. In questo
caso, con la mostra di Alicja Kwade (Katovice, 1979; vive a Berlino), la sua prima personale
in Italia, il partner chiamato in causa è il Museion di Bolzano.
Attraverso lo spioncino, lo spettatore è invitato a
osservare un’unica grande installazione, Broken Away from Common Standpoints, del tutto inedita, soprattutto
se comparata ai trascorsi dell’artista. Torna, infatti, a essere protagonista
la figura umana, grande assente nelle opere di Kwade, qui replicata
all’infinito e rappresentata da decine di porcellane, ciascuna proveniente da
culture differenti, epoche lontane, stili eterogenei. Oggetti di raffinata
fattura incontrano prodotti di scarso interesse, di poco valore. Soggetti
aristocratici, ninfe, dee si accompagnano a ballerine, statuette povere, figlie
della tradizione popolare.
La loro diversità, tuttavia, si perde nella visione
complessiva dell’impianto. Lo sguardo è sedotto dalle curve dei loro corpi e
dalla policromia che li avvolge, ma soprattutto è intento a osservare lo
slancio rituale della danza in cui sono tutte coinvolte, con le braccia che
tendono verso l’alto e gli occhi – disegnati dall’artista – che guardano al
cielo.
In un momento di profonde fratture, di ostilità verso
l’altro, di grande introversione anche nelle culture più civili, lo spettacolo
dell’umanità, in tutta la sua bellezza e complessità, si mette in mostra
nell’opera di Kwade. Le statuine diventano così il simbolo di un mondo in
continua trasformazione, attraversato da profonde nevrosi, ma anche
affascinante e seducente, cornice di storie remote o recenti, che giungono da
ogni dove e che offrono nuovi, possibili incontri con la vita.
È quest’ultima, infatti, il filo conduttore dell’intero
progetto, sviluppato con una chiave spirituale che non può non far pensare,
nelle forme, nel moto ascensionale, nella carica erotica diffusa, all’estasi di
Santa Teresa d’Avila di Gian Lorenzo Bernini. Che questa si riveli nel
presente, o nelle memorie del passato, non conta. Lo scorrere del tempo è
un’ulteriore manifestazione dell’esistenza e delle sue coinvolgenti, infinite,
implicazioni.
L’accezione metafisica dell’opera della giovane artista
polacca è accentuata dai suoi specchi prossimi a sciogliersi (Vom
zukünftigem Hintergrund unter anderer Bedingung betrachtend, 2010) che completano
l’installazione come persistenze della memoria contemporanee, alterando il
senso dei corpi in movimento, sublimandolo nel flusso infinito dell’esistenza.
Tutto scorre: le lancette, l’immagine liquida delle
figurette allo specchio, le idee dell’uomo, i suoi progetti, le pagine del suo
libro.
articoli correlati
La
precedente mostra da Peep-Hole
L’arte
dallo spioncino
Il
progetto Six Ways of Sunday
santa nastro
mostra visitata il 27 marzo 2010
dal 24 marzo al 15 maggio 2010
Six Ways to
Sunday – Alicja Kwade
Peep-Hole
Via Panfilo
Castaldi, 33 (zona Porta Venezia) – 20124 Milano
Orario: da
martedì a sabato ore 15-19
Ingresso
libero
Info: mob. +39
3385694112; info@peep-hole.org; www.peep-hole.org
[exibart]
Una buona idea. E’ pensabile ridurre tutto a buone idee? Gli artisti come cacciatori di idee? L’80% (forse più) di artisti giovani, ma anche meno giovani, avrebbe potuto pensare questa “buona idea”. Si percepisce troppo chiaramente un’ unica attitudine standard. La vaga definizione di un immaginario non è sufficiente se immersa nel bombardamento, nella sovraproduzione e nella saturazione di contenuti standard. Neanche all’estero stanno meglio, guardate un’artista sempre del ’79:
http://www.contemporaryartdaily.com/2010/04/ida-ekblad-at-giti-nourbakhsch/
Come non vedere rigurgiti semplicemente dada? Mi rendo conto che la galleria deve proporre un prodotto. Ma forse la definizione di prodotto può essere modificata. Sembra che la realtà sia quasi più veloce dell’arte, a volte.