“disegni, quadri, sculture, libri, case e progetti, per quanto mi riguarda personalmente non sono che una sola e identica manifestazione creatrice rivolta a diverse forme di fenomeni” (Le Corbusier, 1953).
Ed ecco che gli obiettivi di questa mostra, realizzata in collaborazione con la Fondation Le Corbusier di Parigi, appaiono chiari: fare luce su un differente Le Corbusier, un Le Corbusier per certi versi inaspettato, abituati a collegarlo in maniera unica ed indissolubile al mondo dell’architettura, la quale si è invece nutrita di quest’immaginario pittorico, in uno scambio simbiotico di energie creatrici, così come il grande maestro
Accanto ai due arazzi (considerati “mural nomad”, nomadi e mobili, sintesi fra architettura e arredo) ci imbattiamo in un objet trouve, definito però “objet a réaction poétique”. La lezione surrealista è evidente, eppure l’impiego di materiali organici (legni, conchiglie, sabbie) conferisce all’oggetto un’aura diversa. Queste forme biologiche diventano centri generatori, deformano lo spazio circostante. E il senso di impercettibile mistero, suggeritoci dagli strani segni/impronte lasciate sulla sabbia, ci riconduce a certi interrogativi di Man Ray, e nel complesso alla ricerca schwittersiana.
La mostra, per quel che concerne le opere pittoriche, è suddivisa in tre sezioni. La prima dedicata alla fase cosiddetta “purista”, abbraccia il periodo 1918 – 1928. Si coglie l’influenza della pittura di Fernand Léger, il quale fu vicino a Jeanneret (vero nome di Le Corbusier) in questo periodo di avvio dell’avventura editoriale de «L’Esprit nouveau», una rivista che nasce nel 1919 per supportare la nuova ricerca
La seconda sezione indaga il periodo 1928 – 1940, fase definita «objet a réaction poétique». Qui tele a rappresentare quasi un unico tema: la donna, attraverso una ricerca ossessiva, e questa passione violenta è testimoniata dall’immediatezza del disegno, dall’uso di colori sanguigni come il rosso.
Forse solo in “Saint – Sulpice” abbiamo l’impressione di trovarci di fronte alla riproduzione di un’architettura, una città, ma le forme si intrecciano e si fondono, si compongono e scompongono come accade per “la femme au guéridon et au fer a cheval”, il cui viso è inghiottito da forme geometriche ed elementarizzazioni dei tratti biologici. La sezione si conclude con una sequenza di schizzi che vede protagoniste “le donne mediterranee”.
Al piano superiore la mostra prosegue con il terzo capitolo pittorico, periodo 1940 – 1965, intitolato “Ozon Ubi Tori” ( Ozon è il piccolo paese che accolse Le Corbusier nel periodo bellico).
Ad osservare questi tori e queste icone, pare di trovarsi di fronte a proiezioni di immagini emerse dal sogno, sono grandi personaggi, sviluppati perlopiù sulla dimensione verticale, che sembrano quasi totem di un nuovo cubismo, con colori fortissimi, a rappresentare situazioni ambigue, sfuggenti.
Accanto, la sezione dedicata alle “sculture plastiche acustiche”: 8 opere lignee che testimoniano del rapporto fra Le Corbusier e l’ebanista bretone Joseph Savina. Così definite perché sono “forme che emettono e che ascoltano”. Si incastrano i pezzi di queste sculture, si esprimono non solo con la forma ma anche con il colore (alcuni accenti policromi ricordano vagamente Arp) e ci riportano, con evidente e disarmante semplicità, all’architettura, perché è lo stesso Le Corbusier che ci rivela che “la scultura policroma consente ampie libertà e si offre all’Architettura”. Il maestro arriva così alla cappella di Notre Dame du Haut a Rochamp, sorta di enorme scultura acustica che “proietta lontano l’effetto delle sue forme e riceve in cambio la spinta dello spazio circostante”.
Intorno, oggetti d’arredo realizzati su disegni dell’artista.
La mostra si chiude con schizzi, maquette e disegni dedicati al tema della “main ouverte”, monumento universale progettato per la piazza della città indiana di Chandigarh nel 1951 e che avrebbe dovuto testimoniare la volontà di ricevere e donare dell’essere umano.
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