Faceva parte degli artisti chiamati a esporre alla discussa
Arte e omosessualità, l’altoatesino della scuderia di Italian Factory a cui il Pac dedica un’antologica. Qui
Aron Demetz (Vipiteno, Bolzano, 1972; vive a Selva di Val Gardena, Bolzano) non mette in scena opere che potrebbero destare “disgusto” in un certo pubblico perbenista milanese. Certo, i riferimenti alla religiosità sono ben in vista, ma la posizione di Demetz riguardo a essa non è dissacratoria, anche se non è del tutto chiara.
Così, in
Sacramento (2004) la lettura è a metà fra una messa in discussione del sacramento della comunione e un escamotage per avvicinare l’osservatore, attraverso il gioco, alla tematica religiosa. Allo stesso modo, in
Senza titolo (2008) le due persone che rivolgono le spalle al confessionale ligneo settecentesco identificano un’umanità stanca, divorata dal peccato, che non ha più nulla da dirsi: è quindi giunto il momento di riabbracciare la fede oppure di voltarle le spalle definitivamente di fronte a un mondo troppo ingiusto?
Anche il materiale di cui l’artista si serve maggiormente, il legno, è riconducibile a quel fondamentale committente che fu la Chiesa. Ma Demetz è riuscito a staccarsi dal filone devozionale-artigianale approdando all’arte, ricollegandosi anche, per via degli stessi materiali utilizzati, all’Arte Povera.
Le sue sculture assumono quasi tutte la medesima posizione: ritte su se stesse, fronteggiano la figura dell’osservatore, che si trova combattuto fra il sentirsi coinvolto dalla loro espressione e l’esserne ignorato. Hanno infatti uno sguardo immobile, che si perde in un punto retrostante il fruitore, suggerendo un’azione mentale vissuta dalla scultura proprio in contrasto con la sua immobilità fisica. Un’indagine introspettiva, dunque, che Demetz racconta attraverso l’ausilio dei titoli, come in
I need company (2000),
Altrimenti ti bacio (2002),
Naomi grandimani (2006),
Deframmentazione (2004), dove spesso il meccanismo narrativo è sviluppato attraverso un contrasto e uno slittamento di senso tra opera e titolo.
Si tratta di sculture “silenziose”, assorte, immote. Chiedono di essere osservate senza clamore, di riflettere su ogni loro ferita, su ogni segno tracciato spontaneamente dalla natura o artificialmente dall’artista. Come non si hanno mai i loro occhi, insieme a questi sfugge la loro anima, il pensiero. Teste e corpi ricoperti di resina paiono evocare creature infernali e uomini dalla pelle sfregiata da gravi ustioni. Sono uomini e donne doloranti, ma il loro dolore espresso nella fisicità della materia corporea sembra voler riflettere un’afflizione invisibile alla vista, interna.
È una sofferenza che parla dello stato dell’uomo contemporaneo. Nella suggestiva installazione
Homo Erectus (2008), Demetz chiude il cerchio dell’evoluzione e del discorso sull’uomo attraverso tre personaggi a diversi stadi evolutivi, che si fronteggiano. Nello scenario da catastrofe naturale in cui è ambientata, non sembra trattarsi di qualcosa
in progress, piuttosto di un ritorno, di una ricaduta verso il passato. Il simbolo di una sorta di decadenza fisiologica dell’essere umano, fisica e spirituale.