Un viaggio immaginario alle pendici del Vesuvio. Un volo di esplorazione al di sopra del suo cratere. Contemporaneamente, un cammino della memoria nella nostalgia di un vecchio documentario. Il Vesuvio è arte nell’arte, simbolo nel simbolo, caposaldo iconografico da sempre a cavallo fra storia, leggenda e turismo. Quella che Deborah Ligorio (Brindisi, 1972) propone allo spettatore è un’affascinante esperienza sinestetica, che conduce al vulcano più celebre al mondo attraverso la presa di coscienza di ciò che lo circonda: luoghi, persone, sensazioni visive e sonore. Tornando in questo modo sulle sue precedenti esperienze di attenzione al paesaggio naturale, al viaggio e allo studio di particolari zone del mondo, viste con occhi attenti al microcosmo che essi ricreano.
In mostra da Francesca Minini, l’artista pugliese schiude lo scrigno della memoria collettiva, attinge a piene mani dall’immaginario comune, unisce l’occhio del documentario storico-turistico con quello dell’arte, per proporre una video-installazione preceduta da una serie di fotomontaggi-collage che ne sono corollario e preparazione. Nella prima sala della galleria si viene accolti da un vecchio e ironico proiettore, che rilancia sulla parete forme geometriche allusive. Un triangolo, un quadrato, un cerchio possono essere rimandi alle forme del vulcano e al modo di rappresentarlo. Accanto, i collage offrono squarci di immagini, inframmezzate da forme geometriche al limite dell’astrazione, alludendo agli scenari e alla popolazione delle zone circostanti il Vesuvio nell’Italia degli anni Sessanta.
Ma è sicuramente il video ciò che meglio esprime l’attenzione dell’artista per il paesaggio, non soltanto naturale ma anche etico e sociale che ne deriva. Le riprese ricreano fedelmente, nelle immagini e nel sonoro, un documentario “vecchio stile” sulla storia del Vesuvio e dei suoi abitanti. Mentre sullo schermo si alternano immagini spezzate, ora a colori ora in bianco e nero, che derivano da riprese aeree del cratere e da messe a fuoco sullo spazio circostante, il sonoro rimanda con la memoria a un’Italia che non c’è più. Sono stralci di canzonette della musica leggera anni ’50-’60, interferenze radiofoniche, commenti di cronisti d’altri tempi. E la storia che viene raccontata –visivamente e verbalmente– è quella di un mostro sacro del paesaggio italiano, che è inevitabilmente entrato nelle viscere del paese e dei suoi abitanti.
Il suo sonno momentaneo ha incoraggiato la popolazione a edificare abitazioni in prossimità delle sue pendici, apparentemente incurante del pericolo di risveglio. E quelle pendici sembrano aver segnato irrimediabilmente la storia collettiva e personale di chi le circonda. Quasi un legame viscerale lega al Vesuvio chi ci vive, e lo vive. Di tutto ciò Ligorio ha voluto rendere conto, cercando di trasmettere attraverso il linguaggio polivalente dell’arte il suo stesso interesse per il mondo che ci circonda. Il suo stesso sguardo esploratore amorevole e attento dell’universo e dei suoi abitanti.