Il carrozzone costruito dalla galleria di Massimo De Carlo per la mostra di
Yan Pei-Ming (Shanghai, 1960) è un esempio eccezionale di operazione di mercato: quattro artisti al prezzo di uno, per non tacere di Bruce Lee. Ovvero, uno straordinario lancio promozionale per una rosa di fortunati artisti della scuderia milanese, che passa attraverso la voce sognante di sperimentazione. Con l’ausilio dell’opera di un unico artista, grazie all’etichetta “show”, tanto in voga nella società dello spettacolo, De Carlo costruisce una collettiva virtuale. Che stringe in un unico abbraccio l’Occidente di
Maurizio Cattelan e
Piotr Uklanski al più esotico, trapiantato Oriente di Yan Pei Ming e
Huang Yong Ping, entrambi cinesi residenti in Francia.
La dichiarazione d’intenti sviluppata in questa mostra d’esordio della nuova stagione si veste di diversi significati: ulteriore apertura verso il fenomeno Cina, presentazione timida di un nuovo artista papabile con valutazione incorporata delle sue possibilità sul mercato italiano, riconferma del rapporto con nomi già proposti, volontà di spaziare dalla mostra di presentazione all’evento culturale, confezionato con l’ausilio della legge del
featuring.
Così, nella collettiva milanese, Yan Pei Ming scrive la partitura, senza tuttavia raggiungere i risultati migliori. L’artista che dà il nome all’intero complesso è anche in sostanza quello meno interessante. I suoi acquerelli che ritraggono da Cattelan alle icone dalla dottrina cristiana, da Bruce Lee all’ultimo imperatore, sono tasselli di un discorso impervio e sconnesso. Cercano, infatti, di perseguire parallelamente la strada della denuncia e della postmodrnità. Da una parte, le sue immagini si presentano per quello che sono, miti immortalati nel marmo eterno della memoria collettiva, monumenti di un’epoca che sta reinventando nel cinema, nella storia, nell’arte e nella religione il proprio pantheon. Dall’altra, si caricano di significati socio-politici nella riproposizione di maniere pittoriche postsocialiste e nell’allusione a un senso di desolazione epocale.
Più decisamente baconiano è il ritratto di Ming eseguito da Piotr Uklanski, che si lancia nella stesura drammatica di un groviglio di forme eseguito con una tavolozza limitata eppur raffinata, che s’inserisce a pieno diritto nella tradizione storica del “ritratto d’artista”. Esegue diligentemente il compitino Huang Yong Ping, che accompagna alla pittura dell’amico Ming la rivisitazione in chiave sfacciatamente occidentale della tradizione cinese: involtini primavera, cuscini con passamanerie dorate, acchiappasogni, pon pon da tenda, lanterne rosse, porcellana a basso costo made in via Procaccini, nella Chinatown meneghina. Ovverosia un carosello di esotismi che raggiungono il loro apice nella proposta dell’elefante impagliato, così kitsch ma così mortifero, e che sottolineano ulteriormente quanto la Cina sia ancora lontana. Anche per gli stessi cinesi.
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Complimenti.
mostra potente