Un criterio d’ordine e semplicità informa l’allestimento
della prima personale di
Emanuele Kabu (Belluno, 1978) presso lo spazio milanese di Rojo,
in Zona Tortona. Da diversi anni ormai, l’artista espande il proprio universo
visivo integrando disegno, pittura, video, installazione e suono.
Come gli artisti dell’
underground scene Usa degli anni ’80 (
Barry
McGee su tutti),
a cui s’ispira sin dagli inizi, e come Dino Buzzati, altro riferimento
esplicito, Kabu ama la figura. I soggetti che animano le sue storie,
alimentando la dimensione narrativa di pittura e video, sono simboli
esistenziali di incapacità e speranze dell’uomo.
Kabu sviluppa senza sosta – in una fornace onirica – la
propria caleidoscopica foresta di simboli, cibo per l’occhio e per la mente.
Ciò soprattutto nei video. La trama delle immagini viene cucita all’interno di
un flusso che è respiro circolare, eterno. Un fantasmagorico
mantra, dolcemente melanconico,
per nulla caotico.
A questo movimento fluido di forme-colore, dove una natura
magica è continuamente attraversata da animali speciali, non è estranea la
geometria. Anche nei momenti più lirici e lussureggianti, quando i fondali
marini e le giungle pop-psichedeliche scorrono lenti, la natura appare spesso
sinteticamente geometrizzata. E mentre un tappeto di suoni ipnotici ci porta
via, attorno è un ritmo pulsante d’occhi e prismi.
In questo scenario mobile, critica e sorriso si
sorvegliano. L’ironia ingrigisce nella consapevolezza che la violenza distrugge
i mondi. Il colore è netto, forte, ma le campiture monocrome restano fredde e
il rosso è di sangue.
La mostra si compone di tre parti, distinte e fortemente
intrecciate. Quella grafico-pittorica è costituita da alcuni gruppi di disegni
e quadri, realizzati con colori acrilici e penna su carta, collegati da un
reticolo di rami stilizzati.
Poi ci sono i video. Il titolo stesso della mostra ne
riprende due:
Pangea è un’animazione in classico stile Kabu, ricca di figure surreali e
colore.
Street Fighter è una delle scene di
22 Points of View, videoinstallazione in cui le
immagini scorrono su tre monitor affiancati, incrociandosi random, in loop. Le
scene rappresentano e stigmatizzano ironicamente situazioni di umanità
alienata, ma anche i videogame picchiaduro, dall’estetica ultrapop, come
Street
Fighter, appunto,
o
Mortal Kombat.
Il terzo elemento è
Guitar Hero. Una scultura meccanica dalle
geometrie semplificate, “
pop ma scura”, per dirla con
Ericailcane, che riprende il videogioco
musicale eponimo. La nera figura antropomorfa ha una testa romboidale. Mentre
questa ruota, plettri pizzicano corde: ne scaturisce una sonorità metallica
semplice, simile a quello del
wagon giapponese.
Guitar Hero è carillon, musico minimo,
marionetta arcaica.
Nell’insieme, la mostra rivela la tendenza dell’artista ad
accorpare i medium, e preconizza l’idea di una futura macchina visiva unificata,
congegno teatrale polimorfo in cui ogni parte contribuisca allo spettacolo
integrato finale.
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Kabu è un artista raffinatissimo. Guardate i suoi video su Youtube!