Milano
terra di mezzo, non-luogo che non riesce a perdere la sua relazionalità ed
emozionalità, terreno fertile per contraddizioni e incoerenze. Milano come
metafora di uno stato emotivo e intimo, riflessione sulla condizione
esistenziale corrente.
Uno
slittamento che muove dalla concretezza metropolitana all’astrazione della
sfera personale, in relazione all’attualità, senza la possibilità di
prescindere dalla propria contemporaneità. È questo il motivo che sottende alla
mostra, lo scarto semantico a cui sono giunte le due giovani curatrici nella
presentazione delle opere dei quattro artisti.
Eterogenei
nelle soluzioni formali e nelle ricerche artistiche, perfettamente giustapposti
nelle storiche sale della galleria milanese, a formare un percorso organico che
riesce a coinvolgere lo spettatore in modo trasversale.
Ad
accogliere i visitatori c’è il lavoro più strettamente legato all’attualità e
alle sue incoerenze,
Festhyssen di
Carlo Steiner.
Un festone in
bianco e nero per commemorare uno dei momenti più bui degli ultimi anni, la
strage alla ThyssenKrupp di Torino, cartacea decorazione realizzata
esclusivamente con pagine di giornale dedicate alla tragedia, funereo ornamento
che viaggia sul doppio binario della vicinanza della famiglia Thyssen al mondo
dell’arte, in veste di grandissimo collezionista.
Lavora
in site specific anche
Alessandra Senso Odoni con il suo caveau esperienziale, casseforti in cui
conservare il meglio – o il peggio – dell’esistenza in una società dalla
velocità insostenibile, bombardata dall’informazione, schiava dell’immagine,
deviante nelle relazioni umane e sentimentali. Uno spazio personale che
capovolge i sistemi attuali, in cui un istituto di risparmio perde ogni
connotazione economica e finanziaria, lasciando la logica del profitto per un
bagaglio emotivo e personale.
Dividono
la stessa sala, invece,
Martina della Valle e
Paola Verde con i loro lavori fotografici, unite dall’intimismo della propria
arte, diametralmente opposte, tuttavia, nella forma. Interviene su immagini
altrui la prima, con fotografie vintage sottratte a ricordi di estranei,
schermate da spessi passepartout che ne lasciano visibile solo un dettaglio, un
frammento comune, in cui ognuno può pensare di aver scorto un tassello familiare,
un legame parentale. Ritrovando così il tempo per soffermarsi sul proprio
passato e sulle proprie radici.
Scatta,
invece, negli spazi industriali dismessi di Milano la seconda, riuscendo a
trasformare una pratica oggettiva come il reportage in una fonte d’espressione
emotiva e personale. Bianchi e neri netti e contrastanti, che nascondono nel
proprio occhio documentaristico particolari dalla forte connotazione
sentimentale, unici testimoni di luoghi scomparsi, cicatrici aperte nel tessuto
urbano.