Ci
aveva abituato a densi ritratti di solitari
bachelors incorniciati negli interni della
periferia rurale del nord della Finlandia. E ci aveva abituato, ancora, a
pastosi esterni che conciliavano la vivacità dei toni naturali all’inclemente indicazione
di un’assenza.
A quasi
un anno esatto dalla vittoria del Deutsche Börse Photography Prize,
Esko
Männikkö (Pudasjärvi,
1959; vive a Oulu) torna per la terza volta a Milano con il progetto
Harmony
sisters, una
serie in progress dal 2005, consacrata al ritratto animale.
“
I’m
a photographer of fish, dogs and old men”, sosteneva tempo fa Männikkö, conferendo pari dignità ai
suoi soggetti e assumendo l’asse animale-oggetto-persona come perno su cui far
ruotare un’intera ricerca fotografica. Liberato il campo da ogni pregiudizio
assiologico,
Harmony Sisters si dirige all’animale come verso un simile, senza nessuna
presunta superioriità.
Männikkö
non impugna la macchina fotografica come un’arma di predazione: la carica, la
punta, ma senza violenza. Se è vero infatti che “
fare una fotografia
significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità
di un’altra persona”
(Susan Sontag), il fronteggiamento con l’animale non può che restare estraneo
al bracconaggio.
Pur
agendo nella dimensione dell’indifeso, Männikkö si mantiene in una sospensione
di giudizio, in un atteggiamento metodologico, come a voler applicare l’idea di
social landscape di
Friedlander al mondo animale. Nell’intento di comporre vere e proprie nature “vive”,
Männikkö sembra realizzare paradossali “nudi animali”, non nella sostanza
dell’immagine ma nella dinamica della denudazione e dell’esporre.
L’insistenza
sul particolare ingigantito – gli occhi perlacei e riflettenti, la texture dei
manti e dei pellami – trasforma gli animali in oggetti di fascino che non
spiegano nulla, inesauribili nella loro assertività. Talvolta immersi in un
bianco ottundente, accedono alla consistenza onirica delle visioni: presi come
sono, senza forzature, quei deferenti “sguardi in camera” assorbono il mutismo
del riverbero lattiginoso rilasciato dalla neve.
Quello
di Männikkö non è un iperrealismo vuoto e autoreferenziale; matura gli spunti
di un lavoro già lungamente sperimentato che, in questa fase, accede a una forma
eterodossa di bioarte. Il rischio di un fraintendimento dell’obiettivismo
fotografico di Männikkö e la confusione con un mero approccio documentaristico
viene subito evaso dai magnifici tagli sulla fisionomia delle bestie. La
tentazione per l’astrattismo informale forza il limite della fotografia tecnica
e scientifica, e gli animali di Männikkö, come le sculture involontarie di
Brassaï, diventano anch’essi
involontariamente
tableaux informali e astratti.
“
Comunicare
un mondo senza interpretarlo” è allora quell’attenzione per il dettaglio e per il
banale che Männikkö sembra imparare da un
Kertész ancora intriso di surrealismo –
il focus su occhi lucidi, l’isomorfismo di espressioni facciali umane e animali
– che non conduce a una banale penetrazione psicologica, ma piuttosto a una
ricerca del profilo esistenziale della forma.