Il colore, steso a larghe e corpose campiture, forma grumi
magmatici lungo una quasi rigorosa linea d’orizzonte: i cieli di
Francesco
Correggia (Catanzaro,
1950; vive a Milano) non sono fatti d’aria e vento, ma sussistono in una
tangibile, estrema concretezza, più vicini alla materia della terra. Il cielo
diventa oggetto dove l’artista imprime parole che, queste sì, appaiono traballanti
e flebili folate di vento, un
times new roman traslucido, che assorbe
tenuamente il riverbero coloristico dello sfondo.
La Galleria Antonio Battaglia presenta due serie, ciascuna
di quattro piccoli quadri senza cornice e dipinti anche lungo gli spessori, che
compongono ognuna una poesia diversa; ogni “cielo” infatti porta con sé una
parola. L’ordine dell’allestimento è stato scelto dall’artista ma assicurano
che, se invertite, le opere produrranno sempre e comunque un componimento
poetico. Vengono anche vendute separate, ed è suggestivo pensare a queste brevi
poesie smembrate fisicamente ma idealmente legate da un vincolo fraterno, una
sorta di gene che le unisce.
Il dialogo filosofico tra arte e parola accompagna
Correggia da sempre, sin dagli esordi nell’arte concettuale e attraverso le
performance degli ultimi anni ‘70, nelle quali affrontava il problema della
comunicazione artistica servendosi delle parole in senso strettamente
bibliografico.
Ora, a distanza di oltre vent’anni, tradisce i suoi
trascorsi concettuali considerando l’opera, pur nella sua fisicità, come luogo
di riflessione intellettuale ove interagire con la parola attraverso un
delicato equilibrio, nel quale non si vedono mai le lettere sovrastare il
linguaggio pittorico.
Inesorabile è, infatti, la riflessione di
Dove tutto ha
inizio (2009): le
strisce orizzontali cariche di colore rosso fanno pensare al riflesso, in un
cielo ancestrale, del magma primordiale del mondo, lasciando intendere che
quanto si ha di fronte sia la riflessione che ha attanagliato i pensatori per
secoli; come anche quella di un’altra opera esposta,
Deve esserci un senso (2009), sempre giocata su rossi e
arancio, ma con striature nebulose bianche, aeree, e verdi, terrene.
La freccia che oltrepassa il cielo in
I shot an arrow
into the air (2008), una coltre densa di grigi e bianchi sporchi, sembra essere
rappresentata da leggere ma visibilissime pennellate giallo acido. Come a voler
dire che l’oggetto estraneo, manufatto umano di un’altra epoca, non può
partecipare degli stessi colori e della stessa materia della natura.
L’immediatezza gestuale è, infine, un’altra importante
caratteristica del discorso pittorico dell’artista calabrese, di matrice
decisamente informale, che fa dei cieli superfici non semplicemente astratte,
ma chiuse, piatte, senza neanche un piccolo spiraglio dal quale poter guardare
oltre.
Sono opere cariche e pervasive. Paesaggi intellettuali,
prima ancora che dell’anima.
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FRANCESCO SCORREGGIA