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21
dicembre 2009
C’è, in quest’artista, la fascinazione di uno spazio
nuovo, di luoghi che non esistono. Mondi incontrati nei viaggi della mente,
attraversando oniriche reminescenze. Franco Donaggio, (Chioggia, Venezia, 1958; vive a
Milano) è l’artista e fotografo pubblicitario che comincia a lavorare quando il
giorno è ancora lontano, quando tutti dormono. “Ed è il mio inconscio a
essere illuminato”,
racconta. “È allora che sento più vicina la vita, che mi riapproprio della mia
spiritualità”.
Le immagini prendono forma, cambiano via via, come lo
spettacolo che appare a chi attraversa il tempo, a chi vola su una mongolfiera.
Un’architettura che sa di cattedrale, nella prima grande opera, un dittico, che
rimanda all’iconografia lillipuziana. Piccolissimi uomini – ma è sempre
Donaggio che ritrae se stesso – si muovono su un ponte precario, ancorato alla
struttura con alcuni cavi. Figura umana che sale sulle funi, che corre, sosta.
Che muore? Che si getta nel vuoto e si guarda cadere. Minuscoli esseri viventi,
che agiscono come solo nel sogno è dato di fare, che lottano e si muovono in
uno spazio kafkiano, abitato dal sentire profondo della finitudine umana. Dalla
consapevolezza che l’uomo non può riempire lo spazio e si eleva sopra le cose
solo attraverso il pensiero.
Due foto più piccole. Nella prima, uno spazio interno,
un’immagine speculare: il particolare di una famosa chiesa, vetrate che
lasciano entrare nuvole bianche. Una sospensione nel cielo, la terra sembra
lontana: ad abitare quello spazio, tre piccolissimi uomini, e uno è ancora
l’artista. “L’uomo
non è che una canna, ma è una canna che pensa”.
Poi nuvole, ancora nuvole, elemento che ricorre spesso
nell’opera di Donaggio, come principio di tutte le cose e fors’anche emblema
d’incertezza, effimero che nasce. E poi scompare. C’è una piattaforma, con un
grande punto interrogativo reclinato, in realtà una piccola scultura in marmo,
una domanda sulle ragioni dell’esistenza. E gli uomini, ancora piccolissimi.
Poi, una fotografia che inquieta: una piazza marmorea, qualcosa
che sembra un mausoleo, al centro la testa di una scultura, le labbra a toccare
la terra, come un Cristo caduto sotto la croce. Piccole figure umane si muovono
intorno al mistero. Il cielo è nero, le nuvole chiare in un’altra opera di
quest’artista, un grande spazio, dove un solo, piccolo uomo dai capelli bianchi
guarda verso l’alto, in una vibrante, irreale atmosfera. Una nuova piazza,
crocevia di tragitti, una grande apertura al centro, fauci della terra, baule
di pensieri che i viandanti lasciano riposare.
Sono fotografie fatte per durare nel tempo, stampate su
carta baritata applicata a fogli di alluminio. Fotografie dal sapore
intimistico, espressione tangibile del prodotto della mente. “Verso il
destino”, si potrebbe intitolare un’altra opera della mostra: due vicinissime
pareti, alte, grandi, irraggiungibili torri di marmo, che si aprono. Come le
acque del Mar Rosso nella fuga dall’Egitto, per lasciar passare un uomo.
Piccolo.
nuovo, di luoghi che non esistono. Mondi incontrati nei viaggi della mente,
attraversando oniriche reminescenze. Franco Donaggio, (Chioggia, Venezia, 1958; vive a
Milano) è l’artista e fotografo pubblicitario che comincia a lavorare quando il
giorno è ancora lontano, quando tutti dormono. “Ed è il mio inconscio a
essere illuminato”,
racconta. “È allora che sento più vicina la vita, che mi riapproprio della mia
spiritualità”.
Le immagini prendono forma, cambiano via via, come lo
spettacolo che appare a chi attraversa il tempo, a chi vola su una mongolfiera.
Un’architettura che sa di cattedrale, nella prima grande opera, un dittico, che
rimanda all’iconografia lillipuziana. Piccolissimi uomini – ma è sempre
Donaggio che ritrae se stesso – si muovono su un ponte precario, ancorato alla
struttura con alcuni cavi. Figura umana che sale sulle funi, che corre, sosta.
Che muore? Che si getta nel vuoto e si guarda cadere. Minuscoli esseri viventi,
che agiscono come solo nel sogno è dato di fare, che lottano e si muovono in
uno spazio kafkiano, abitato dal sentire profondo della finitudine umana. Dalla
consapevolezza che l’uomo non può riempire lo spazio e si eleva sopra le cose
solo attraverso il pensiero.
Due foto più piccole. Nella prima, uno spazio interno,
un’immagine speculare: il particolare di una famosa chiesa, vetrate che
lasciano entrare nuvole bianche. Una sospensione nel cielo, la terra sembra
lontana: ad abitare quello spazio, tre piccolissimi uomini, e uno è ancora
l’artista. “L’uomo
non è che una canna, ma è una canna che pensa”.
Poi nuvole, ancora nuvole, elemento che ricorre spesso
nell’opera di Donaggio, come principio di tutte le cose e fors’anche emblema
d’incertezza, effimero che nasce. E poi scompare. C’è una piattaforma, con un
grande punto interrogativo reclinato, in realtà una piccola scultura in marmo,
una domanda sulle ragioni dell’esistenza. E gli uomini, ancora piccolissimi.
Poi, una fotografia che inquieta: una piazza marmorea, qualcosa
che sembra un mausoleo, al centro la testa di una scultura, le labbra a toccare
la terra, come un Cristo caduto sotto la croce. Piccole figure umane si muovono
intorno al mistero. Il cielo è nero, le nuvole chiare in un’altra opera di
quest’artista, un grande spazio, dove un solo, piccolo uomo dai capelli bianchi
guarda verso l’alto, in una vibrante, irreale atmosfera. Una nuova piazza,
crocevia di tragitti, una grande apertura al centro, fauci della terra, baule
di pensieri che i viandanti lasciano riposare.
Sono fotografie fatte per durare nel tempo, stampate su
carta baritata applicata a fogli di alluminio. Fotografie dal sapore
intimistico, espressione tangibile del prodotto della mente. “Verso il
destino”, si potrebbe intitolare un’altra opera della mostra: due vicinissime
pareti, alte, grandi, irraggiungibili torri di marmo, che si aprono. Come le
acque del Mar Rosso nella fuga dall’Egitto, per lasciar passare un uomo.
Piccolo.
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Via Garigliano, 3 (zona Isola) – 20159 Milano
Orario: da mercoledì a sabato ore 10-13 e 16-19
Catalogo disponibile
Ingresso libero
Info: maiter@galleriawabi.it; www.galleriawabi.it
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