Agosto, aperti per ferie. Sarebbe stato impensabile fino a qualche anno fa inaugurare in piena estate una mostra che, qualunque sia il giudizio critico su Fernando Botero (Medellìn, 1932), si preannuncia come capace di attirare un vasto pubblico. A dimostrazione del fatto che Milano non è più una città che in agosto trattiene il respiro per ripartire frenetica a settembre.
Botero, dunque. Conosciuto e ri-conosciuto in tutto il mondo per le donne dalle forme generose e le nature morte dai colori freschi come quelli delle granite. Amato dal pubblico, poco gradito alla critica che lo considera banale, troppo facile, sempre uguale a se stesso. La verità forse sta nel mezzo. Lo si può verificare anche in questa mostra milanese che raccoglie circa centocinquanta opere dell’artista colombiano, dagli anni Novanta fino ai lavori più recenti, più sei sculture in bronzo collocate nelle vie cittadine. Un mix di tele di indubbio fascino che ricostruiscono molto bene l’universo Botero di forme rotonde e grandi piani di colore e lavori dove si fa davvero fatica a rintracciare un’ispirazione genuina.
L’allestimento (curato dallo stesso Botero) è attento e minimale, si affida solo a pareti colorate: pareti dipinte di bianco per le tele di maggiore cromatismo, color aragosta per i disegni, grigie per le opere drammatiche di Abu Ghraib. Perché in mostra c’è un Botero inatteso e inusuale: accanto ai colori festosi e alle atmosfere di provincia sono esposti i lavori che l’artista ha dipinto per denunciare gli orrori del carcere iracheno. Questi rappresentano una brusca cesura nel percorso espositivo
La parte migliore della mostra è la sezione dedicata alle opere storiche nella quale chi ama Botero potrà divertirsi ad ammirare molte celebri tele e chi non lo ama potrà in parte ricredersi lasciandosi attrarre dalla piacevolezza con cui “mette in scena la vita, racconta, instancabilmente racconta […] il mondo che ha vissuto e che ha visto con gli occhi dell’infanzia” (Vittorio Sgarbi). Una girandola di colori e di personaggi monumentali dall’espressione indecifrabile: zitelle strabiche, ufficiali, coppie di ballerini, ritratti di famiglia, preti e cardinali, golose nature morte e giganteschi vasi di fiori (originale il trittico Fiori in giallo Fiori in blu Fiori in rosso, tutti 2006).
Tutto in Botero è voluminoso, le forme sono ampie, placide, definite da un colore luminoso e senza ombre. È il colore che dà sostanza e volume alle cose altrimenti prive di rilievo plastico. Un universo massiccio ma stranamente lieve, i personaggi pur così monumentali appoggiano leggeri quasi fluttuano nel loro mondo.
Ne Il club del giardinaggio (1997, una delle opere migliori in mostra) Botero ricrea un’atmosfera antica, quella del tempo che fu -e che forse non è mai stato- in cui la vita scorre lenta e serena; bello anche Atelier di sartoria (2000) dove il tempo è sospeso ed una quiete silenziosa avvolge il piccolo angolo del negozio nel quale i rotoli di tessuto sugli scaffali sono altrettanto rotondi e morbidi delle sarte al lavoro.
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Botero, Banali Boiate Bulimiche. Basta!
Grossolano e approssimativo.
Opere a tiratura quasi industriale. Inespressività e piattezza che spegne anche la vivacità dei cromatismi sudamericani.
Abu graib un tentativo, mal riuscito, di dare contenuti e storicità alle opere che rimangono prive di contenuti.
Tecnica pittorica molto povera.
Significative e assolutamente degne di nota le sculture.