In genere, chi scatta fotografie mutua il reale attraverso le immagini, dando un taglio e unâestensione al simbolico e alle sue, immancabili, vertigini prospettiche. Câè chi, invece, usa la fotografia per fermare, per salvare e infine per ricostruire il permanere del soggetto, estratto fuori dalla negativitĂ , fuori dallâerosione incontenibile del tempo e della storia. Chi fa questo molte volte vede e scatta. Mentre altre volte, invece, realizza, crede qualcosa, quindi scatta e poi, solo dopo, oltre lâatto della presa, guarda attraverso. Creando, involontariamente, ma in presa diretta, una sorta di paesaggio filamentoso. Un binario parallelo fasciato dal non-concluso, dal succube succedersi. Ă proprio questo il modus operandi di un particolare pensatore di immagini, come ama definirsi Michele Zaza (Molfetta, 1948).
Con la sua ultima personale lissonese, dal sapore lontano, ma dalla carica stravagante, pacata ed esoterica, lâartista ricostruisce una narrazione simbolica muta, ancestrale e per questo ininterrotta. Uno sguardo meditativo su lâimmagine e la veritĂ della sua, propria, fenomenologia fotografica. Attraverso il mezzo-fotografia, infatti, Zaza esalta il carattere documentaristico di un corpo umano usato come âtraghettoâ, un riflesso prolungato, rimesso allâassoluto. Unâemersione dal mutamento del quotidiano. Con Io sono il paesaggio, lâassunto cartesiano del punto sullâesistenza trascende, avvitato, e successivamente ispessito, da uno zeitgeist ancestrale. Uno spirito che fa ritorno su se stesso.
Ecco giustificati, allora, lâuso straniero di colori notturni, stolidi e dilaganti negli sfondi di filmati e fotografie. Ecco spiegate le fisionomie transgender utilizzate per la caratterizzazione dei soggetti/soggetto.
Ed infine ecco trovato il âperchĂŠâ del cuore semantico di virtuose simbologie cosmogoniche frammiste a materiali semplici, poveri. Cose come richiami del quotidiano che imperversano nel mondo salvando le veritĂ del cotone ovattato, delle stelle viste dal basso, delle molliche di pane e dei sacchi di rafia. La sequenza di otto grandi fotografie, sulla destra, e la scultura/installazione verticale, appesa alla parete sinistra, fanno da guida. Un richiamo, allâingresso della neonata Galleria Six. I lavori sono, prevalentemente, quelli giĂ presentati durante una scorsa personale dellâartista, esposizione presentata col titolo Paesaggio nascosto, nel 2005. Ma la ricchezza e il respiro espositivo, questa volta, permettono di dedicare parte dellâesposizione anche al contemporaneo, senza trascurare angoli e momenti retrospettivi. Un breve salto, dunque, dai colori smorzati, degli anni Settanta. Tra realtĂ ed astrazione, quotidianitĂ e inno alla divinitĂ , il linguaggio, seppur fotografico, dellâartista pugliese si fa oscuro e metaforico. Una sorta di danza per un solo dio.
Tante inquadrature che testimoniano il gesto, il ritmo e il rituale di movenze che, forse, data lâeccessiva, silente, compostezza, possono voler dire creazione oppure, al contrario, pacifica distruzione.
ginevra bria
mostra visitata il 30 giugno 2007
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