Le polaroid di
Nobuyoshi Araki (Tokyo, 1940) sono ovunque. E ovunque, Occidente od Oriente che sia, sono diventate immagini che spingono a compiere un movimento, un gesto. Posto di fronte ai formati ridotti delle istantanee, il visitatore si piega come per sbirciare dalla serratura. Se ci si trova insieme ad altre persone, qualcuno, confuso, si ritrae, come a fingere di non aver visto fin troppo. È dunque preferibile ricercare la giusta tranquillità. Osservare con calma una serie classica, che comprenda almeno i cieli bruni, abbondanti
nue bondageé e lucidi tripudi floreali. Allora la prossemica e l’intera disposizione dell’osservatore cambia: il corpo schiude e gli occhi catturano solo per curarsi di quello che filtrano. Seni strizzati, labbra laccate, mascara colati, vestaglie stirate, calzini bianchissimi e spessa aria greve. Il vero indice del successo, ormai omologante, di questo fotografo risiede nella noia polverosa che si stende, come un colore a sé, su ogni minuzia. In questo modo ogni particolare, nonostante la seccatura scomoda della riproduzione, brilla di luce propria.
Da Guenzani sono in mostra un gruppo di scatti in bianco e nero, di grande formato, che aggiungono agli elementi scenici “di routine arakiana” un nuovo gesto. Questa serie somma alla sonnolenza sensuale dell’andamento narrativo un movimento esterno allo scatto, un moto che, almeno in parte artistico, diventa pittorico. Nonostante l’acromia possa falsare la sofisticata esistenza degli ambienti, dei set fotografici, questa base “afona” restituisce forza all’acrilico dai colori iridescenti, sparsi quasi ad unghiate sulla stampa lucida.
Il moto pittorico di queste composizioni non è una precipitosa novità. Le pennellate pop, sgargianti, fluorescenti, rientrano a pieno diritto nei riti della gestualità. All’interno di quel galateo poetico così caro all’estetica della meditazione pittorico-sperimentale teorizzata da diverse correnti giapponesi degli anni ‘60 e ‘70. Vanno inoltre notate alcune caratteristiche. La prima, evidente, è il gigantismo degli scatti. Decisione che mantiene intatte persino alcune precise prese tragiche, altrimenti sminuite dal bianco e nero. Infine, si faccia caso al baricentro dal quale parte ogni gettata di pittura: il residuo, lasciato in rilievo, rimane come un segno
en passant della pennellata, a sferzare i soggetti in un punto preciso. Verso quel centro di fuga intimo che precipita e risucchia, condensandoli, primi e secondi piani.