Presenze un po’ inquietanti, non abbastanza familiari da
neutralizzarne il potenziale destabilizzante. Appaiono così, a prima vista, i
lavori scultorei di
Aaron Curry (San Antonio, Texas, 1972; vive a Los Angeles), disposti
nelle stanze e in tensione dialettica con i collage che li attorniano, appesi
alle pareti. L’artista statunitense, per la sua prima personale italiana,
presenta un numero equilibrato di opere (non poche, comunque, anzi), gestendo i
due ambienti espositivi a disposizione senza troppo saturare gli spazi.
Eppure, a indagare più analiticamente, la sua arte può
rivelare dettagli maggiormente indicativi. Il biomorfismo che riporta a
Miró, anzitutto. Specie nelle
sculture, che lasciano l’impressione di un ricercato primitivismo, come a voler
celare una complessa rete di riferimenti colti. Il gioco della complicazione
costruttiva, sostenuta da equilibri fragili, ricorda infatti i lavori di
Calder e, sempre rimanendo in area
surrealista, non si possono ignorare riflessi formali del
Picasso degli anni ’30.
Su queste sagome (si tratta di legno compensato, dello
spessore di pochi centimetri soltanto) l’artista agisce tracciando a matita
segni grafici nervosi e duri, sembrerebbe memori di
Cy Twombly. Mentre le griglie bianche,
serigrafate sullo sfondo nero, li assecondano con tagli irregolari, volti a
confondere la loro origine artificiale.
Ma non è che il primo dei contrasti presenti. La gamma
cromatica si risolve perlopiù con il suddetto bianco e nero, a cui s’aggiunge –
soprattutto, ma non solo, nei lavori a parete – un acceso quanto industriale
arancione. Allo stesso proposito, immagini di occhi e bocche inserite a collage
vanno a rappresentare dettagli naturalistici nel mezzo dell’astrazione,
componendo una strategia dell’indizio risalente al periodo cubista nella sua fase
sintetica.
Gli scritti critici dedicati a Curry, però, citano
soprattutto – e vedendole, probabilmente, a ragione – le opere scultoree degli
anni ’40 del giapponese
Isamu Noguchi. Ma la differenza è presto detta: oltre al materiale
utilizzato (in Noguchi era infatti il marmo), in generale è il cospicuo scarto
temporale a permettere l’inserimento di elementi pop all’artista texano. Come
l’uso della bomboletta spray, che conduce inevitabilmente al graffitismo.
L’ambiguità (di stile, di forma, cromatica, temporale…),
punto cruciale su cui Curry fonda la propria ricerca, si ripresenta quando la
riflessione si sposta sul rapporto fra spazio e superficie. Dove, infatti, gli
innesti di varie sagome su piani e in versi differenti vanno a scontrarsi con
la
flatness dei pattern e dei segni presenti sulle stesse.
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ma con queste ruffianate al sistema, Rabottini crede di essere un curatore internazionale?
rabottini e aaron curry? robaccia
Più che altro mi chiedo se non era il caso di fare una collettiva con mirò,calder,picasso,cy twombly,noguchi.. e visto che ha anche infleunze pop, warhol o haring. Per il resto penso che queste fusioni di postproduzione ci possono stare, ogni tanto, e per un pubblico particolare.