A Milano gli anni ‘70 sono nuovamente protagonisti. Dopo la mostra in Triennale, è la galleria 1000eventi che dedica una mostra al “lungo decennio del secolo breve”. Questa volta con opere di Buren e Huebler, illustri firme dell’arte concettuale. Il filo rosso è quello dell’abbandono di mezzi espressivi consolidati come la pittura, per indagare le modalità con cui si costituiscono le opere e il fare dell’arte. Raffigurazione e astrazione cedono alla riflessione. Spazio e spettatore, tempo e casualità diventano protagonisti.
Le opere esposte di
Daniel Buren (Boulogne-Billancourt, 1938) vanno dalla fine degli anni ‘60 alla metà dei ‘70. È il 1965 quando l’artista francese sceglie di non utilizzare la pittura, limitandosi a uno strumento visivo invariabile di origine industriale: righe verticali alternate, bianche e colorate, dalla larghezza costante di 8,7 centimetri. Buren concentra la propria produzione sulla ricerca sul rapporto tra opera, spettatore e contesto. Mutando supporti, dimensioni e collocazione delle proprie opere, riflette sulle differenti modalità di percezione dovute allo spazio in cui l’opera si colloca, dando al luogo in cui sono esposte una centralità fondamentale. Pur essendosi perse le tracce del loro “sito” originale, i quadri di tela a righe in mostra ridefiniscono lo spazio in cui si trovano, attraversandolo con una dialettica di vuoti e pieni, grazie alla ripetizione seriale delle righe alternate e alle differenti altezze a cui si collocano sulle pareti uniformemente bianche. Colpisce inoltre il modo in cui manifestano il loro carattere storico. Le pieghe del tessuto e il colore sbiadito sembrano quasi riportare un loro carattere “documentario”, una ulteriore affinità, forse, con le opere dell’altro artista presenti in galleria.
Nella produzione di
Douglas Huebler (Ann Arbor, 1924 – Truro, 1997) l’abbandono della pittura segue la volontà di non aggiungere altri oggetti a quelli già presenti nel mondo. La sua opera si concentra sul tempo e sullo spazio, documentando la loro azione sull’esistente, e lo stesso procedimento artistico viene interessato da questa attenzione documentaria. Come in
Alternative Piece #7, che raccoglie in cornice dattiloscritti che descrivono l’azione e fotografie del suo svolgersi, testimoniando il percorso casuale che l’artista, in viaggio tra Francia, Italia e Germania, avrebbe seguito, lasciando decidere a una moneta la direzione da seguire. Il carattere storico del processo artistico è accentuato, a distanza di trent’anni, dal modo in cui i supporti che lo documentano sono invecchiati.
Come recita l’opera senza titolo di Huebler esposta nel corridoio della galleria, un quadro bianco in cui spicca un’unica scritta, che avverte lo spettatore del cambiamento impercettibile ma costante di ciò che ha di fronte. Un processo inesorabile, segnato da una temporalità di cui al presente non è possibile fare esperienza. Un limite della percezione, che riguarda spettatori e opere d’arte di ogni tempo.