Gracili, filiformi, eteree. Le sculture metalliche di Fausto Melotti (1901-1986) partoriscono da una poetica danza con la materia, una danza s’un filo di rasoio, sottile e tagliente, ironica e pungente.
Se nel ‘35 le sue rigorose composizioni basate sulla teoria del contrappunto lasciarono critica e pubblico pressoché indifferente, per niente affranto Melotti continuò con costanza nelle sue costruzioni spaziando di tecnica in tecnica. Era animato da uno spirito che non doveva scostarsi di molto da quello spiegato nel ‘75 in un componimento della raccolta pubblicata quell’anno da Adelphi: “Il raptus drammatico della creazione artistica è simile allo stato d’animo del ragazzo che, trovandosi a camminare di notte in una strada deserta, per farsi coraggio canta e, non ricordando più nulla, inventa la canzone”.
Le opere esposte da Arte Centro, per lo più sculture metalliche, testimoniano una produzione che prese il via nei primi anni Sessanta. Dal punto di vista tecnico questa nuova fase dell’artista è caratterizzata dall’uso del filo d’ottone saldato, mentre l’accento stilistico è liberato dalle algide simmetrie dei lavori precedenti e aperto a strutture apparentemente instabili, distinte da un acceso dinamismo degli elementi. E’ una leggerezza, quella di questo nuovo Melotti, che coinvolge al contempo forma e materia.
La bestia sonnambula, opera del 1969, presenta una funambolica struttura con catenine a mo’ di zampe, mentre il volto di quest’indefinibile animale è modellato in un piccolo frammento di maglia metallica. Basta un soffio e la bestia muove i suoi arti penzolanti prendendo magicamente vita, scomposta ma aggraziata da un sottile ésprit de geometrie. Un dinamismo simile torna ne Il giudizio di Paride (1979), dove le
Queste forme fatte di niente, filiformi strutture che modellano ambienti e personaggi, hanno una leggerezza e una semplicità zen che s’incontra fondendosi con un’eco tutta mediterranea. La nave di Ulisse, anch’essa del 1979, è uno scheletro di battello, costruito dalle sole linee portanti e sormontato dal volto misterioso e metafisico di una musa. Lo stesso profilo torna, moltiplicato, ne Gli addii (1982), opera densa di evocazioni mitologiche. Movimento, instabilità, ma anche e soprattutto gioiosa ironia: ne Il leone con il cornuto del 1964 una geisha ha una stilizzazione del Giudizio di Paride sul cappello, una rigida struttura geometrica è attraversata da cuori guizzanti e il leone rimanda al surrealismo scultoreo di Max Ernst.
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duccio dogheria
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