“
C’è in qualsiasi contatto umano un limite fatale”, scrive Anna Achmatova, poetessa
russa d’inizio secolo. “
Non lo varca amore né passione / pur se si fondono
le labbra in un muto spavento / e il cuore si spacca d’amore. / Perfino
l’amicizia qui è impotente / e anni d’alta, fiammeggiante gioia, / quando
l’anima è libera ed estranea / allo struggersi lento del piacere. / Chi cerca
di raggiungerlo è folle, / se lo tocca soffre una pena sorda… / Ora puoi
capire perché il mio cuore / non batte sotto la tua mano”
.Quando
Oleg Kulik (Kiev, 1961) non va a cavallo nudo, quando non infila la
testa nel sedere dei bovini, quando non si fa fotografare mentre copula con
cani giganti, maiali, conigli, o quando non cammina a quattro zampe nudo in
città, appeso a un guinzaglio, probabilmente interpreta e medita su questi
versi.
L’autore ucraino, noto per sovrapporre
perfezione narrativa e ritmi delle bestialità all’esattezza della forma
riproduttiva (con la quale sceglie di lasciare traccia di sé attraverso video,
performance e fotografia), espone parte del proprio lungo show a Milano, nelle
stanze sceniche della Galleria Pack.
Deep into Russia, questo il titolo
della retrospettiva, non è una fiera del vero ostinato né una provocazione
radicale della brevità. Nessuna immagine è allestita per mettere alla berlina
trofei d’amore e bestie rare. Ogni composizione è al posto giusto:
intransigenza esplosa tra il tempo e il non.
Deep into Russia è una kermesse ricca,
agitata e inscenata per voltare le spalle all’eccesso. Le fotografie esposte
rispondono prevalentemente alle scale cromatiche (potenti e lucide) dei bianchi
e dei neri; mentre le videoinstallazioni raccontano la terra attraversata dal
viaggio, dai colori caldi delle distanze e dai desideri del tempo (si vedano le
orge acquatico-platoniche tra lolite e anziani).
La galleria risulta così suddivisa in diverse
sezioni (fra le altre,
New Sermon,
Holy Family,
Dead Monkeys e
Future Family) e dimezzata, fin
dall’ingresso, verticalmente in altezza.
Deep into Russia è un laboratorio
sospeso, tra palchi, soppalchi e impalcature che la trasformano in
un’installazione ob-scura, una struttura totale, una palafitta che taglia in
due l’orizzonte visivo. Gli sguardi interi restano solo negli occhi prosciugati
delle scimmie, impressi alle pareti; mentre nelle zampe dell’animale-padrone
rimangono gli scatti incolumi dei dietro-le-quinte, veli inesistenti sulla vita
di Kulik.
Nonostante l’invito (proteso) allo
smascheramento di sistemi, rapporti e sentimenti sfavillanti di brutalità, nei
soggetti rappresentati, si consiglia di visitare la mostra come se fosse la
lunga traccia di una performance. Si consiglia, infatti, di assorbire ogni
dettaglio e di rimanere in galleria il più a lungo possibile, soli e al buio.
L’intenzione è quella di affidarvi a un sentiero spontaneo, fra tende scure,
finti-laboratori,
privé idealizzati e palcoscenici prospettici. Gustate dunque
l’inumano sottoposto al suo proscenio formale.
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mostra bellissima, recensione ridicolmente astrusa.
concordo l'esposizione sorprende e stupisce anche ci conosce bene il lavoro di kulik chi non lo conosce forse ne sara sbigottito in ogni caso da vedere. eccellente!