L’arte sta bene ovunque. Negli appartamenti, nelle gallerie, nei musei e -perché no?- anche nelle case di produzione. Daniela Cattaneo e Luca Maroni, fondatori della (h)films di Milano, attiva dal 2001, non hanno dubbi su questo. Perciò affiancano alla propria attività nel settore della comunicazione, mostre d’arte contemporanea, per sostenere un’idea tanto sana quanto attuale. Ovvero, bando alla retorica e a conservatorismi di sorta, la creatività non conosce limiti. E chi ha lavorato su un set sa bene quanto sommando le singole competenze si abbia un buon risultato, come mescolando i linguaggi si ottengano prodotti di valore. Considerate queste premesse e, in barba alle malelingue, la (h) films presenta un cocktail di composite, seppur ben assortite, esperienze. Due le giovani curatrici, Raffaella Guidobono e Maria Chiara Valacchi. Due i pittori, May Cornet (1975) e Valerio Berruti (1977). Due pure gli scultori, la coppia torinese Isola&Norzi (1976). Ad aprire le danze, per la prima volta nel capoluogo lombardo, May Cornet, la vispa nipotina di Freud, ex assistente di Mona Hatoum, con The O’ Drawing, una geografia di 4×3 metri in cui il segno “o” muta da traccia calligrafica a cifra stilistica. E ripetuto all’infinito fluidifica in maree, intaglia insenature, ammicca a chiaroscuri, evocando velatamente paesaggi lontani, intravisti, dall’alto, da una torre panoramica o durante un decollo.
Risponde al fuoco delle astrazioni rapite Valerio Berruti, con le sue introspezioni eseguite a pastelli ad olio ed affresco. I volti, i corpi gracili a malapena abbozzati, i supporti ispessiti dalla materia pittorica alludono ad un mondo interiore prezioso, mai esplorato. Che affiora sulla carta, vago come un sogno, struggente come un’immagine fotografica sbiadita, in cui sottintesa è la memoria. Tralasciata. Semplicemente custodita. Come nelle figure appena imbastite da Isola&Norzi, corpi lignei emaciati, alleggeriti dalla gravità dell’esistenza con una mano di calce bianca. Vite fossilizzate nella ieraticità della plastica, nell’attesa d’essere liberate dallo sguardo dello spettatore, o dalla mano degli artisti, dal malefizio di cui sono vittime. Quasi divinità della quotidianità pietrificate dallo sguardo della gorgone, muse inquietanti senza una precisa collocazione temporale. I cui contorni, volutamente indefiniti, cercano una compenetrazione con lo spazio circostante. Fino all’assoluta fusione, al riscatto dalla condizione di estremo, drammatico isolamento ed abbandono, in cui l’arte ne ha circoscritto le anime irrequiete.
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