Photology propone un assaggio della grande retrospettiva di
Claudio Abate (Roma, 1943) allestita al Mart di Rovereto fino a pochi giorni fa. Puntando su stampe lambda di ampio formato, che accompagnano l’occhio alla ricerca di nuove sintassi per tradurre il dialogo fra arte e fotografia.
Installazione, artista e fotografo si dissimulano, si rincorrono e si fondono in queste immagini che, almeno sotto l’aspetto compositivo, rivelano essere inaspettatamente classiche, immobili nella loro ieraticità frontale: il punto di vista diretto permette di porre al centro l’opera. Sia che riprenda
La freccia laser (1988) di
Maurizio Mocchetti o
Disegno (1972) di
Gino de Dominicis, Claudio Abate riesce a caricare con forza la centralità emotiva dell’oggetto artistico. L’intervento del fotografo si declina innanzitutto nell’uso della luce, irreale e innaturale, che sembra catturare i fotoni direttamente dal cuore della performance.
Lo sfondo viene sapientemente piegato allo stato d’animo dell’installazione, ritagliando dalla natura uno spazio nuovo, in grado di fondersi cromaticamente con l’oggetto, protagonista indiscusso dello sguardo. In particolare, nei notturni
Un segno nel Foro di Cesare (2003) di
Mario Merz e
Sappho (2005) di
Anselm Kiefer, lo spazio è scenografico è impregnato dell’aura dell’immagine, come se la presenza della stessa pilotasse i toni dei blu e la limpida luce lunare. La natura diviene in tal modo emanazione dell’arte. In altre occasioni, l’ironia e l’atmosfera vagamente dada di alcune opere –
Senza titolo (2001) di
Micol Assael e
Willy il Coyote (1999) di
Annie Ratti– si scontrano con l’apparente scientificità della ripresa, amplificando l’effetto straniante.
Queste immagini di Claudio Abate sono come ghiaccio secco che, al primo battito di ciglia del nostro occhio, si frantuma e rivela non tanto la sagoma, ma l’essenza stessa dell’opera. Non sono fotografie che documentano un evento, ma tracce incise per sempre nel Dna dell’installazione ripresa. Appendici postume, ora inseparabili dal corpo dal quale e per il quale sono nate. Claudio Abate appartiene a quella schiera di fotografi –
Ugo Mulasin primis– che, seppur con percorsi diversi, hanno emancipato la tecnica fotografica dalla posizione subalterna rispetto alla pittura che la storia le aveva riservato. Vedendo e rendendo il mezzo meccanico un valore aggiunto all’operazione artistica.