C’è un altro mondo, invisibile, che doppia il visibile. E una seconda vita degli oggetti, un potenziale che cammina parallelo al loro uso. Le cose, abbandonate e scartate, entrano indiscretamente nell’arte, con il disordine caotico e la forza della realtà accidentale.
Gli anni ’50 di
Gino Marotta (Campobasso, 1935) rappresentano un decennio sperimentale, fecondo e creativo, che prelude alle ricerche sui metacrilati e sulla dimensione artificiale della natura. Sono anni silenziosi in cui un Marotta poco più che ventenne -e già all’altezza del proprio compito storico-, attraverso un rapporto critico con l’informale accademico, si impone sulla scena romana e nel dibattito internazionale accanto a
Tàpies,
Burri e
Rotella. E sono anche anni ammutoliti, revisionati, liquidati come “divagazioni giovanili”.
Anni Cinquanta (ri)propone con sguardo retrospettivo e genealogico una selezione di quelle opere, vittime di un’inquietante e duratura censura critica. A testimonianza dell’autoaggressività dell’arte contemporanea, troppo libera di cancellare, negarsi, ripensarsi. Di insabbiare, talvolta, le proprie origini.
Le radici del lavoro di Marotta affondano nella ricerca sulla contaminazione materica: piombo, stagno, polvere di marmo, legno chiodato, carta e lamiere mischiano le loro consistenze e descrivono il sopravvento dell’azione umana costruttiva sulla contemplazione. Fuori dalla funzione di ricompensa dell’arte, Marotta si pone in attesa della risposta della materia. E il non-organico diventa vivente. Contro l’anestetica ispirazione borghese, il bello assume le forme del quotidiano, della lacerazione e della frammentarietà. La dissonanza della materia segna la riabilitazione poetica della sporcizia, dello scarto e della rovina: la ruggine e il
junk sono tecnica ed espressione.
I
Piombi rendono un approccio fabbrile al corpo ibridato delle leghe metalliche. Negli
Allumini compaiono figure intraviste, tracciate in maniera discontinua, fantasmi figurali dalla fisionomia abbozzata. Mentre sulla densità lavica dell’alluminio si aprono cicatrici e ferite, la divaricazione di questi passaggi segna la presenza di un piano di emersione di tessuto rosso sangue. I
Bandoni raccontano, attraverso il
ready-made, una precoce fascinazione per la materia ossimorica e per l’incisività del gesto artistico. Tradendo qualche avvisaglia pop, l’evoluzione del collage è un agglomerato, un impasto.
Con il molteplice, l’indeterminato e l’indiscreto, Marotta tampona il barbarico
horror vacui della contemporaneità. L’accostamento distonico dei frammenti del quotidiano, il carattere “basso” dell’ispirazione e la non-idealizzabilità della tecnica artistica sono un primo passo verso la dimensione filosofica dell’arte.
Se la Pop Art
“non è espressiva della creatività del popolo, ma della non creatività della massa” (Argan), gli anni ’50 di Marotta spingono la pratica “concreta” verso una poetica della materia che sembra aver chiuso i conti con l’estetismo. Prima che i “popist” scivolassero nella pedissequa moltiplicazione degli oggetti di consumo.