Pierluigi Calignano (Gallipoli, 1971. Vive a Milano) dissemina sul prato all’inglese del chiostro palloni multicolori. In realtà si tratta di grevi sculture in marmo, che premono sul soffice terreno sul quale poggiano. Come ci ha abituati l’artista, che costantemente spiazza lo spettatore, soprattutto se conosce i suoi precendenti lavori, si ripropone il discorso sugli opposti e le frontiere. In questa installazione, da un certo punto di vista vengono ribaltati gli assunti di Ci sono sogni che preferirei non ricordare (2002), dove un’onirica città era contraddistinta da una imbarazzante leggerezza. In Verde a pois (2005) è invece la pesantezza dei balocchi a interdire. Come il Wilhelm Meister pensato dal regista Gabriele Vacis, che giocava con un enorme pallone-mondo rischiando di venirne schiacciato, nel caso dei palloni di Calignano ci si immagina il rovescio dell’invito al gioco, i danni che potrebbero causare quei chili sproporzionati per l’incauto calciatore. Ne parlava già Lorella Giudici, “l’altra faccia della meraviglia è la paura”. Così, quei palloni sono tutt’altro da sé stessi, dissimulano la loro funzione ricreativa e divengono espressione di contraddizione, come un peschereccio che le cui falle fossero tappate da imbuti (Stretti stretti, 2002).
All’interno del Centre, Dominique Petitgand (Laxou, 1965. Vive a Parigi) presenta un’installazione sonora priva di riferimenti visivi. Un cut-up udibile nel massimo silenzio, a piedi scalzi, per impedire anche il più piccolo scricchiolìo. Sei altoparlanti animano Voix blanches (2005), composta da cinque “brani”, tre dei quali tradotti in italiano. Come dichiara l’artista, “le mie opere sonore sono armadi di voci bianche” che vengono registrate e poi montate, secondo un’alchimia anti-naturalistica che predilige il silenzio. Vengono in mente gli esperimenti di John Cage in camera anecoica, anche se l’artista ha sostenuto di non amare il maestro americano. Il valore aggiunto dell’installazione rispetto ad altre forme di diffusione del suo lavoro (festival, cinema, teatro ecc.) risiede nel maggior potenziale di disorientamento, al quale contribuisce la dissimulazione delle fonti sonore e la deconstestualizzazione temporale delle voci.
Proprio le coordinate spazio-temporali sono messe in discussione, e in senso kantiano si potrebbe a buon diritto definire il lavoro di Petitgand anti-estetico. Quel che ne risulta è un’esperienza etimologica del dia-logo, linguaggio che si frantuma contro il suo stesso fine, la comunicazione, pur essendo onnipervasivo. La reazione è dunque assai spesso quella di non restare seduti all’ascolto, ma camminare attraverso il suono, contribuendo inconsapevolmente all’effetto vertiginoso, alla sollecitazione del labirinto, quella parte dell’orecchio che ci permette di mantenere l’equilibrio.
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