La mostra di
Luca Vitone (Genova, 1964; vive a Milano) è la prima di una serie d’iniziative volte a valorizzare la collezione permanente della Gamec e, attraverso le personali di “giovani” artisti presenti nella raccolta del museo, ad approfondirne tematiche e percorsi.
Dire che Vitone è un artista dei luoghi o che, in un mondo caratterizzato da un diffuso nomadismo, viva ovunque e in nessun posto non è sufficiente, poiché ormai queste condizioni sono comuni quasi a chiunque. Forse la figura a cui può essere associato è quella dell’agrimensore kafkiano, non però di un terreno misurabile, ma di uno spazio in cui, attraverso la ricerca, si deve ricostruire una misurazione culturale e sociale, una sorta d’identità trascorsa.
Sulle tracce di frammenti vissuti che si possono ritrovare in scavi socio-culturali e nelle misurazioni di luoghi in cui la cultura era presente, Vitone costruisce la sua poetica.
Le informazioni reperite, dai materiali identificativi a quelli raccolti dalle tradizioni orali, sono tutte necessarie come tasselli di un mosaico.
Sonorizzare il luogo, Emilia Romagna (1989-93) è un lavoro che combina la cartografia, in questo caso delle regioni d’Italia, con la musica della tradizione popolare. Venti cartine e venti pezzi musicali, ricercati come farebbe un antropologo, riportano alla superficie un passato storico prezioso e identitario.
La ricerca di Vitone non si limita però alla raccolta di reperti culturali, ma cresce nella loro elaborazione, che avviene con il contatto diretto di chi vive nei luoghi indagati e che è poi utilizzata per ricostruire un’identità locale. In
Nulla da dire, solo da essere (2004), una delle opere più significative sia dal punto di vista politico che sociale e culturale, l’artista fonde l’iconografia dei movimenti anarchici con quella del mondo nomade dei rom. E la frase “
Il movimento è tutto, il fine è nulla” è la sintesi di questi stili di vita.
Entrando in contatto con le comunità a-sistemiche o isolate dai flussi comunicativi, Vitone rende esplicite le contraddizioni. Proprio dai termini contrastanti, inseriti come supporti portanti dell’opera, nasce la consapevolezza originaria di un luogo e la destabilizzazione dei codici e dei linguaggi che usiamo correntemente. Lo spettatore può allora raccogliere i frammenti culturali che Vitone riporta dai suoi viaggi e innestarli nella propria vita.
E nel momento in cui il nostro sguardo si posa sulle sue mappe di comunità altre (
Wider City, 2006, e
Wide City, 1988), che esistono nei nostri tessuti urbani e che spesso ignoriamo, le nostre identità culturali apparentemente consolidate sono gettate in una condizione di spaesamento. Ed
esigono un chiarimento esistenziale.