C’è
questa vecchia canzone di Moltheni – già, con l’acca: e meno male che ce l’ha,
altrimenti, a pochi giorni dalla chiusura del Salone del Mobile, chissà che si
poteva pensare – che si intitola
Nel potere del legno. Ed è qui,
in questa canzone, in questa atmosfera, in questa forza, che si finisce per
cadere passando tra le opere che
Tony Brown (Lousiana,
1970; vive a Los Angeles) porta a Milano nei nuovi spazi scelti da Nicoletta
Rusconi.
Perché
è proprio nella potenza, nell’invadenza gentile della materia, nella sua
straripante felice fisicità che si esercitano i motivi più interessanti
proposti dall’artista. La manipolazione dell’
object trouvé guarda in
modo tanto virale quanto fatale all’Arte Povera di un
Kounellis; la
selezione dei materiali non può prescindere dalla classificazione degli
elementi idealizzata da
Beuys, dall’umanità e dal calore di
feltro e legno che leggiamo nel suo lavoro.
In
Brown tutto ciò genereranno nuovi libri… Ecco quindi la serie di lavagne tagliate
e incassate in forma di busti umani, tanto simili, chissà quanto casualmente,
al muso stilizzato di un toro; ecco l’omaggio dichiarato a quella che l’artista
considera la figura architettonica primaria: il corpo umano, in barba al
trilite. E allora, sulla pelle di ardesia, petali essiccati e trame di vecchie
tappezzerie raccontano, come satire di tatuaggi, storie enigmatiche ma
possibili.
Su
tutto cala il gusto per un’archeologia finalmente liberata dal peso della
storia e rivolta all’esclusiva analisi del presente, in un apparente ossimoro
degno dei romanzi di Don DeLillo, dove ricorrono le apocalittiche, prodigiose e
cinematiche immagini di apprendisti archeologi a caccia di reperti nelle
discariche degli Usa. In questo filone si inseriscono collage e décollage,
divertissement dove gli
scatti di fotoreporter, astratti dalle pagine dei giornali, perdono dettagli e
contesti fino a rappresentare cronache arcane, indicibili, incomunicabili.
E
incomunicabile è la lingua estrema che emerge, bianca di ceramica, dalle lastre
di ferro – queste molto Kounellis-style – del prodigioso
Untitled che domina
il “lato lungo” della galleria. Una ammiccante riflessione sul linguaggio che
evoca, per contrasto,
Kosuth: dalla parola come arte all’arte
come parola. Il piacere per l’archeologia si riflette nel gusto per la
classificazione, per l’ordine, la ricostruzione. Ci si imbatte allora nella
Tree-installation, casellario
ligneo che accoglie minuscoli e raffinati disegni di elementi naturali,
attualissimi
pinake votivi di una cultura eco-animista.
Una
scelta formale di grande impatto, che ricorda – per soluzione e forza
espressiva – la
Composizione non finita-infinita di
Bertozzi
& Casoni scelta per il Padiglione Italia dell’ultima Biennale.