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10
luglio 2009
fino al 18.VII.2009 Reena Saini Kallat Milano, Primo Marella
milano
L’arte come impegno politico e pratica del ricordo. Fra tradizione e contemporaneità, l’opera sensibile di Reena Saini Kallat. Alla sua prima personale in Italia in una galleria che insiste, giustamente, sul sudest del mondo...
Essere all’avanguardia nell’arte contemporanea significa saper intuire quali sono i Paesi in grado di nutrire un’arte tesa fra tradizione e modernità, ancorata a un forte passato culturale ma in via d’apertura verso l’Occidente.
I cosiddetti “Paesi in via di sviluppo” (in special modo il sud-est asiatico), soffocati da sistemi politici opprimenti, afflitti da guerre interne, indeboliti da cataclismi ambientali, sono dalla fine degli anni ’90 il bacino privilegiato da cui attinge la Galleria Marella. Occuparsi di Cina, India, Indonesia, Filippine, Malesia significa dar voce a realtà lontane, la cui arte sovente è un appello internazionale ad aprire gli occhi su cosa sta accadendo nel mondo, mentre noi occidentali siamo distratti da quotidiane futilità.
È il caso dell’indiana Reena Saini Kallat (Delhi, 1973; vive a Mumbai) che, muovendosi abilmente fra svariati media, vuole far luce sul rapporto tra singolo e collettività e sulla delicata questione del Kashmir, territorio conteso fra India e Pakistan.
Nella serie Synonym, l’artista parla di persone registrate come disperse. Essere dispersi non è molto diverso dal perdere l’identità, perché noi siamo in relazione al nostro agire (rivestendo ruoli sociali e affettivi), al nostro abitare, al nostro essere in e appartenere a un luogo. Sparire è come evaporare.
L’artista s’impegna in una pratica della menzione e del ricordo, mostrando come ogni soggetto, identificato dal proprio nome, rivesta un ruolo importantissimo nella creazione dell’entità collettiva, che si pone come nuova singolarità in cinque grandi ritratti di persone smarrite. Mentre l’anonimo retro mette in luce la relatività dell’identità individuale rispetto al resto del mondo, rendendo ognuno di noi un ignoto per tutte le migliaia di persone che popolano la Terra.
La delicata lavorazione del marmo in White Yarn (Silt of Reason) e in White Heat (The Ironing Board) rappresenta una metafora della necessità di ricucire e appianare le divergenze politiche fra India e Pakistan, mettendo in luce l’effettiva difficoltà e la frustrazione che conseguono dalla mancanza di dialogo. È affascinate notare come Kallat rappresenti in queste sue opere ornamentali simboli di famiglie indiane e armi, che a suo stesso dire hanno al contempo un valore offensivo e altamente decorativo.
Sempre sul tema della guerra, Silt of Seasons-I è una videoinstallazione in cui vengono proiettati sul pavimento nomi di persone che hanno inoltrato richieste di pace risultate purtroppo vane. A un iniziale senso d’impotenza e sconforto si sostituisce presto un messaggio di speranza, suggerito anche dai primi lavori descritti: l’unione e l’impegno di più uomini può creare una nuova coscienza civile, atta ad avvicinare le persone attraverso il dialogo.
L’artista compie una lettura della tradizione che nasconde inaspettate congruenze con fatti sociali contemporanei. La grande installazione-scultura Saline riprende infatti un antico testo indù, in cui gli dei agitarono i mari facendo emergere creature fantastiche e, in questo caso, armi e utensili. Come se la vita fosse una danza tra bene e male, destinata a ripetersi in eterno.
I cosiddetti “Paesi in via di sviluppo” (in special modo il sud-est asiatico), soffocati da sistemi politici opprimenti, afflitti da guerre interne, indeboliti da cataclismi ambientali, sono dalla fine degli anni ’90 il bacino privilegiato da cui attinge la Galleria Marella. Occuparsi di Cina, India, Indonesia, Filippine, Malesia significa dar voce a realtà lontane, la cui arte sovente è un appello internazionale ad aprire gli occhi su cosa sta accadendo nel mondo, mentre noi occidentali siamo distratti da quotidiane futilità.
È il caso dell’indiana Reena Saini Kallat (Delhi, 1973; vive a Mumbai) che, muovendosi abilmente fra svariati media, vuole far luce sul rapporto tra singolo e collettività e sulla delicata questione del Kashmir, territorio conteso fra India e Pakistan.
Nella serie Synonym, l’artista parla di persone registrate come disperse. Essere dispersi non è molto diverso dal perdere l’identità, perché noi siamo in relazione al nostro agire (rivestendo ruoli sociali e affettivi), al nostro abitare, al nostro essere in e appartenere a un luogo. Sparire è come evaporare.
L’artista s’impegna in una pratica della menzione e del ricordo, mostrando come ogni soggetto, identificato dal proprio nome, rivesta un ruolo importantissimo nella creazione dell’entità collettiva, che si pone come nuova singolarità in cinque grandi ritratti di persone smarrite. Mentre l’anonimo retro mette in luce la relatività dell’identità individuale rispetto al resto del mondo, rendendo ognuno di noi un ignoto per tutte le migliaia di persone che popolano la Terra.
La delicata lavorazione del marmo in White Yarn (Silt of Reason) e in White Heat (The Ironing Board) rappresenta una metafora della necessità di ricucire e appianare le divergenze politiche fra India e Pakistan, mettendo in luce l’effettiva difficoltà e la frustrazione che conseguono dalla mancanza di dialogo. È affascinate notare come Kallat rappresenti in queste sue opere ornamentali simboli di famiglie indiane e armi, che a suo stesso dire hanno al contempo un valore offensivo e altamente decorativo.
Sempre sul tema della guerra, Silt of Seasons-I è una videoinstallazione in cui vengono proiettati sul pavimento nomi di persone che hanno inoltrato richieste di pace risultate purtroppo vane. A un iniziale senso d’impotenza e sconforto si sostituisce presto un messaggio di speranza, suggerito anche dai primi lavori descritti: l’unione e l’impegno di più uomini può creare una nuova coscienza civile, atta ad avvicinare le persone attraverso il dialogo.
L’artista compie una lettura della tradizione che nasconde inaspettate congruenze con fatti sociali contemporanei. La grande installazione-scultura Saline riprende infatti un antico testo indù, in cui gli dei agitarono i mari facendo emergere creature fantastiche e, in questo caso, armi e utensili. Come se la vita fosse una danza tra bene e male, destinata a ripetersi in eterno.
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Primo Marella Gallery
Viale Stelvio, 66 (zona Maciachini) – 20159 Milano
Orario: da martedì a sabato ore 11-19
Ingresso libero
Catalogo disponibile
Info: tel. +39 0287384885; info@primomarellagallery.com; www.primomarellagallery.com
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