Direct Architecture. Politics and Space, atto terzo. L’ex chiesa secentesca di via Borgo Vico si tramuta nuovamente in un modello sperimentale di azione urbanistica. Un padiglione di analisi teoriche e minuta pratica concreta.
Nel primo episodio della manifestazione,
Maria Papadimitriou aveva messo “su ruote” alcuni frammenti modernisti dell’architettura comasca, elaborando, con l’ironia della
truck art, strategie di riappropriazione della città contemporanea. Nello scorso maggio,
Santiago Cirugeda aveva invece proposto una declinazione sociale dell’architettura, assumendola come manifesto del diritto allo spazio pubblico e all’accesso diretto e democratico ad esso. Sotto accusa i meccanismi economici e culturali del controllo biopolitico.
In questo terzo episodio, la logica installatoria di
José Dávila (Guadalajara, 1974) continua nell’intento di decostruire la presunta neutralità dell’
international style e la sua indifferenza verso le identità culturali e nazionali. Alla prova le potenzialità artistiche ed analitiche della progettazione urbanistica. La linearità del contemporaneo mimetizza il calore del monumento storico: assumendo anch’egli come input l’architettura modernista comasca, Dávila cerca di riacquisire controllo sullo spazio architettonico. La sede di Borgovico 33 diventa così, metaforicamente -ma non solo-, un centro di monitoraggio dello spazio fisico e sociale nel “villaggio globale”.
Se lo spazio espositivo è il presupposto della rappresentazione, l’architettura è il “luogo” delle azioni
site specific, attraverso le quali ri-costruire strutture e funzioni preesistenti, stratificate e accumulate nella memoria urbana. “Parassitare” gli edifici e la loro apparenza diventa il metodo per duplicare lo spazio fisico, producendone un
analogon per la riflessione. Da qui il senso della macrostruttura sospesa. Realizzata con legno, alluminio, neon e rivestita internamente da pannelli industriali per controsoffitti, il “modello duplicato” entra nella rappresentazione depotenziato, come un’idea sensibile che si presenta nelle sue variazioni: il paradigma è un sistema aperto.
Uno scatto della serie fotografica
Studies for future buildings introduce alla filosofia di Dávila: in linea con la sintassi di
Luis Barragán -i suoi effetti enigmatici e i suoi piani complementari dello spazio- la pianificazione viene “dal basso”, prendendo a pretesto strutture incidentali e materiale di recupero. Il potere creativo e costruttivo della circostanza interviene sullo statuto dell’architettura, prendendosi gioco della sua potenza e della sua credibilità. Il modello è occasionale e occasionato.
Il di-segno crea cellule e partizioni in uno spazio umano tagliato nel
cosmos. Nell’intervento murario, quindi, la logica dei modi e della modalizzazione: attraverso i meccanismi della poliangolarità di
David Alfaro Siqueiros, Dávila produce una seconda duplicazione deformante dello spazio espositivo. Il complesso ecclesiale diventa una superficie virtuale replicata nelle sue possibilità di deformazione. Quando lo spazio processuale crea forme estetiche.