Nascere in un paese dalla tradizione culturale forte e radicata
come il Marocco e trasferirsi ancora bambina nello stato – la Francia – che,
con la sua presenza coloniale, ha contribuito alla complessità sociale della
terra natia. Ritrovarsi, di conseguenza, una volta adulti, a riflettere sulla
propria identità nazionale, senza però trovarne traccia.
È questo il bagaglio di
Latifa Echakhch (El Khnansa, 1974; vive a Parigi e
Martigny), forte presenza che si avverte nelle opere presentate per la
personale milanese da Francesca Kaufmann, così come nei lavori esposti nella
contemporanea mostra al Fridericianum di Kassel.
Echakhch porta dentro di sé le differenze tra mondo arabo e
cultura occidentale, è fedele rappresentatrice delle contraddizioni che
spaccano il tessuto marocchino, sempre in bilico tra gli usi maghrebini e la
storia francese, dalla forte spinta occidentale, e l’affannoso recupero di un
folklore di matrice musulmana.
Proprio dall’iconografia decorativa islamica l’artista parte per
elaborare le sue
Dérives,
in cui i classici
girih,
complessi pattern geometrici dalla struttura matematicamente studiata, p
erdono
ogni rigore logico razionale per abbandonarsi alla tela, a-sistematicamente, in
una
deriva, appunto,
che porta sulla superficie pittorica le pratiche situazioniste, incrociando
ancora una volta l’avanguardia francese con la memoria araba.
Si muovono sullo stesso piano
Les Petites Lettres, gioco di
parole sulla traduzione del nome delle
briouattes, tipici dolci marocchini preparati manualmente dalle
donne. “Piccole lettere” che non possono esistere nella versione di Echakhch,
la quale sceglie d’immergere i manufatti cartacei in china nera, negando così
la possibilità di espletare ognuna delle funzioni che provengono dai diversi
livelli di lettura.
È
una ricerca, invece, tutta francese quella interpretata in
Plainte, proiezione murale amorfa delle misure che il
celeberrimo
Le Corbusier aveva
studiato come perfezione ergonomica nel suo
Modulor. Ma non v’è più alcuna silhouette umana a mostrare le
proporzioni, solo campiture omogenee di carboncino nero sui muri, che si
deposita come polvere sul pavimento, nel consumarsi per la colorazione. Quasi
un
memento mori ispirato dallo
studio per la miglior vita possibile.
Chiudono
la mostra i piedistalli della serie
À chaque stencil une révolution, une
après l’autre, ulteriori spostamenti
verso i problemi del mondo arabo, in questo caso mediorientale, tristi metafore
della difficile situazione del conflitto israelo-palestinese. Fogli di carta
carbone sono irrorati di alcol su bianchi piedistalli, perdendo così il potere
moltiplicatore, vanificandone la finalità, disperdendo la potenza della parola,
che diventa colatura di colore, pigmentazione indefinita, incerta,
incontrollabile, proprio come lo scontro di cui è immagine.
Posizioni
inconciliabili, ingestibili, che portano a un’impossibilità di scelta. Ma anche
a una profonda riflessione sull’Io, in funzione del mondo.