Per discutere e prendere decisioni comuni serve guardarsi in faccia. Per questo i partecipanti ad un consiglio d’amministrazione sono solitamente disposti attorno ad un tavolo e non schierati come in CdA di Paola Mattioli (Milano, 1948). L’insolita disposizione ricorda piuttosto quella di una commissione di laurea. La prima esaminata è la fotografa, nel cui obiettivo sono fissati gli sguardi- Dopo di lei viene lo spettatore, chiamato a dialogare visivamente attraverso espressioni di pacata intesa, di soddisfatto stupore oppure ammiccanti, che sembrano alludere ad una precedente conoscenza. La lunga scrivania alla quale i soggetti si appoggiano funge però anche da palco. I partecipanti del CdA si fanno osservare dallo spettatore non come immagini fisse, ma come attori di teatro, ognuno con il suo ruolo, che si manifesta nelle diverse espressioni facciali, nei gesti delle mani, nell’abbigliamento e in tutta la postura. L’assenza di interazione fra loro fa sì che ci si possa focalizzare di volta in volta sul singolo ritratto, riconducendolo ad una personalità ideale, ad una tipologia di persona, ricercandone persino degli esempi nella vita reale. Si capisce perfettamente a chi spetta il ruolo del capo: un solo personaggio può permettersi di presentarsi in maniche di camicia, di non esibire il minimo sorriso e negare quasi la comunicazione con lo spettatore attraverso uno sguardo ottuso e infastidito.
Lo spazio espositivo si rivela adattissimo ad ospitare la mostra. Si tratta infatti di un’agenzia fotografica, totalmente differente da una tradizionale galleria. È composta da uffici, estremamente curati dal punto di vista estetico –vasi colmi di amaryllis e pezzi di design– ma comunque degli uffici, con cassettiere e soprattutto scrivanie: versioni ridotte del lungo tavolo al quale sono seduti i protagonisti di CdA.
Le gallerie sono solitamente spazi spogli o neutri, le stanze ammobiliate di via Eustachi 2, invece, integrano invece l’opera principale in mostra, facilitando l’immedesimazione dello spettatore con la tematica del lavoro.
Dalle sfere alte, dagli ambienti decisionali, ci si sposta alla fabbrica. Se l’opera precedente era caratterizzata da una forte personalizzazione, la serie Dalmine nega la presenza umana. In questo le opere esposte allo spazio Salvioli differiscono dalla mostra sullo stesso tema, Fabbrico, in corso a Reggio Emilia, dove ai lavoratori si offre attenzione e visibilità. Le due coppie di fotografie di Dalmine ritraggono ciascuna un ambiente della fabbrica in due momenti diversi: prima inondato da un’esplosione incandescente e abbagliante che genera la sensazione sublime di una potenza soprannaturale; poi sullo spegnersi del fuoco, quando le forme della ferraglia, degli ingranaggi, di tubi e catene riemergono, distruggendo l’illusione d’essere al cospetto di Efesto.
Non generano materia come una forgia o un big bang, ma anche le stelle astratte di Chiamami stella sembrano esplodere. A questo simbolo l’artista riconduce l’origine controversa e misteriosa del linguaggio, ma anche l’immortalità di miti che sconfinano dalla politica e dalla storia, come quello del Che. Il pensiero corre infine ad una stella che, splendente in cielo o disegnata in nero sulla pancia di una donna incinta, preannuncia sempre il mistero più grande, la nascita di una nuova vita.
anita fumagalli
mostra visitata il 20 dicembre 2006
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