Se l’arte è creazione di percezioni e affezioni, la filosofia è creazione di concetti. Unendo le definizioni si ottiene
Traphic, vale a dire la creazione di un nuovo concetto d’arte. Artefice del neologismo è
Thomas “Marok” Marecki (Berlino, 1972), graphic designer, art director della rivista
Lodown e autore di pubblicazioni d’immagine. E proprio intorno a un libro edito da Unagi Books prende forma la sua personale presso Gogallery.
Traphic è correlazione dei termini
traffic e
graphic e ideazione di uno sviluppo rizomatico, per
millepiani e principi di connessione eterogenei. Come il concetto creato dal filosofo Gilles Deleuze e dallo psicanalista militante Félix Guattari, implica lo sviluppo aparallelo e agerarchico di direzioni in movimento attraverso installazioni e opere a tecnica mista, che ricordano per certi versi lo stile di
Roy Lichtenstein, con il retino che s’intravede come in filigrana e che sembrano realizzare l’auspicio deleuziano di una pop-filosofia, legittimazione delle polarità perdenti di una millenaria tradizione dottrinaria: divenire vs essere, molteplicità vs uno, polimorfismo vs identità
et cetera.
Traffic in quanto suggestione di una dimensione proteiforme e magmatica, mille entrate e mille uscite a interconnessioni diversificate. Da qui il ricorrere dell’artista alla raffigurazione delle barriere in uso nei lavori in corso sulle reti stradali e trasfigurate come
a-teologia del negativo, vale a dire: ciò che Traphic/Rizoma non è. E
graphic in quanto comunicazione visiva immediata del network rizomatico che sottostà a un sistema complesso: l’epistemologo Ludwig von Bertalanffy, la “dromocrazia” di Paul Virilio e
of course il “villaggio globale” di Marshall McLuhan.
Summa racchiusa nel suddetto visual book
Traphic. Insomma, per Marecki grafica fa rizoma con traffico. E come Schopenhauer ammoniva l’incauto lettore a leggersi Kant, poi Platone e magari qualche rigo delle
Upanishad prima di cimentarsi nella lettura de
Il mondo come volontà e rappresentazione, così verrebbe da dire che per poter apprezzare il lavoro di Thomas Marecki sarebbe quanto meno necessaria una full immersion nell’intrapresa filosofica di Deleuze e Guattari. Si verrebbe a capire come le sue opere non vadano osservate in successione come una sequenza lineare, ma immaginate come piani che fanno le veci di capitoli e paragrafi di un libro.
Fermo restando che, come il libro non va inteso nell’accezione tradizionale che ne fa un’immagine del mondo, così le installazioni e opere a tecnica mista di Marecki non dovrebbero essere percepite come rappresentanti alcunché, se non l’oggettivazione più o meno adeguata di uno pseudo-concetto, un’idea talmente debordante di astrazione da rendere necessario l’artifizio del neologismo.
Viene in mente Wittgenstein che, dopo aver illustrato per sommi capi il suo
Tractatus agli occasionali interlocutori, chiudeva la concione con un “
lo so che non avete capito niente, ma non importa”.