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anticipo di un secondo, nemmeno: forse appena di un frame sul break even point.
Punto di rottura che segna il cambiamento di stato, la minuscola rivoluzione
copernicana di una presenza: epifania che basterebbe a scongelare un tempo
infinito ma infinitesimale, ammiccante nella bugia di una costruzione spaziale
che finge indipendenza dall’uomo, eppure ne è succube, amante ribelle legata a
un elastico che schiocca implacabile a ogni minaccia di abbandono.
Se
non fossero fotografie ma fotogrammi, e non fossero interni ma sequenze di film
horror, gli scatti di Jason Oddy (Londra,
1967) segnerebbero il punto preciso in cui l’orrore sta per manifestarsi.
L’attimo sottolineato dal grido di viole e violini, l’approssimarsi dell’ombra
dell’assassino, del diavolo, dell’aberrante devianza. Dell’essere uomo.
Spazi
vuoti, stanze fredde di una morte cromatica che indugia sui filtri del
pastello. Un occhio allenato alla lettura di architetture, modanature, dettagli
all’apparenza curiosi o inusuali. Un occhio capace di leggere tracce perdute,
nello shock di un tempo indeciso tra l’evolversi o il ripiegarsi su se stesso.
Nessuno aspetta nessun altro: le stanze d’attesa sono ritratte nude,
imbarazzate nella loro improvvisa rarefatta funzionalità.
Eppure qualcuno ha
atteso, lo ha fatto fino a un istante fa: le poltrone emanano calore di corpi,
anche se la pieghe della pelle trattata bianca si sono già ritratte come unghie
di gatto. Eppure qualcuno attenderà, di nuovo: c’è già posto sui braccioli per
gomiti tesi di noia, per giornali abbandonati in brandelli all’arrivo della
persona attesa.
Luoghi
di potere e prevaricazione, dalla sede ginevrina dell’Onu ai sanatori dell’ex
Unione Sovietica; luoghi di scelte irrevocabili, spazi per l’esaltazione
intellettuale della coscienza di uomo, per la sua più compiuta
autodeterminazione. C’è un valore estetico nelle fotografie di Oddy, in fondo
non dissimile dalle biblioteche di Candida
Höfer. Ma c’è, soprattutto, una profonda costruzione concettuale, in questo
davvero vicina al progetto che Armin
Linke ha dedicato alle “stanze dei bottoni”, portando al Maxxi l’italico Corpo dello Stato.
Vuoti
di potere, in realtà gonfi di presenze tanto inattese tanto ineludibili; spazi
pulsanti di un peso doloroso, contenitori che assorbono il malessere del
contenuto. Porte semichiuse, pudiche: sembrano in realtà spalancate e lascive.
Risultati possenti in termini introspettivi: quasi un’implicita risposta alle
complesse costruzioni “a tavolino” dei vari Olaf o Crewdson. Come a
dimostrare che è possibile bypassare la ricostruzione, la finzione, il gusto
per il set e affidarsi esclusivamente
alla suggestione. All’evocazione di “quello
che non c’è”.
Come leggere lo spazio: Candida Höfer si
scontra con Paolini
Armin Linke rilegge i centri del potere in
Italia
I complessi set di Erwin Olaf da Forma
francesco
sala
mostra
visitata il 29 gennaio 2011
dal
13 gennaio al 19 febbraio 2011
Jason
Oddy – Within
a
cura di Carlo Madesani e Serena Zacheo
Camera16 Contemporary Art
Via Pisacane, 16 – 20129 Milano
Orario: da martedì a sabato ore 15-19
Ingresso libero
Info: tel. +39 0236601423; info@camera16.it; www.camera16.it
[exibart]