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fino al 19.III.2006 Beautiful Losers Milano, La Triennale
milano
Una generazione contro. Perdenti di fronte alla cultura commerciale, ma scintillanti di creatività. Graffiti, video, grafica, musica e fotografia. Senza dimenticare l’emergente toy culture...
“Anybody want to lose / everybody want to win”. Su queste note si snoda uno dei lavori video di Mark Gonzales (Untitled, 2004). Il cuore pulsante della mostra Beautiful Losers sta tutto qui: un’intera generazione americana “perdente” e “contro”, il suo nuovo modo di esprimersi, il tentativo di opporsi alla ragnatela opprimente del mainstream, che divora avidamente il mondo della musica, dello spettacolo, dell’arte. Una generazione che però non vuole perdere.
La mostra, co-curata da Aaron Rose e Christian Strike con René de Guzman, Thom Collins e Matt Distel, documenta con determinazione gli anni Novanta -cornice storica di gran parte degli artisti in mostra– ma non solo, ampliando la panoramica di riferimento di certa cultura underground che, dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli Ottanta si sviluppa nelle strade, sui muri, costruendo le fondamenta di quella che è stata poi definita street culture.
La sezione Roots & Influences raccoglie infatti alcuni lavori di Jean-Michel Basquiat, Futura, Keith Haring, Andy Warhol e molti altri, con un’ampia selezione di dipinti, stampe, graffiti, video, musica e fotografia.
Proseguendo lungo un percorso che costituisce l’unica pecca dell’esposizione, in quanto difficilmente riconoscibile tra stanze e corridoi che sembrano continuamente intersecarsi, si attraversano strade e periferie che costituiscono il raggio d’azione dei numerosi artisti in mostra. Chi pensasse di trovarsi di fronte esclusivamente a bombolette spray e graffiti dovrà ricredersi: i linguaggi utilizzati vanno dal video alla fotografia, passando per murales, stickers e grafica quasi pubblicitaria, come ad esempio nei disegni su vinile di Mike Mills (autore della copertina del disco-colonna sonora dell’omonimo film The virgin suicides).
L’ironia e una visione disillusa della realtà sono caratteristiche comuni a molti degli artisti in mostra. Tra gli altri, spicca il lavoro Never forgive action (2001-04) di Todd James; tra la grafica e il fumetto. Un continuo accavallarsi di teenager, irriverenti e smaliziate, più che per le contorte pose sexy, per le loro affermazioni, come la pungente “you don’t know my secret / and it’s not my pokemon!”.
Il lavoro di Shepard Fairey appare senza dubbio tra i più calati nella dimensione urbana e periferica: il suo Manifesto Obey spiega come l’utilizzo di centinaia di stickers e graffiti, dalla faccia grassa e lo sguardo fisso, stimolino la reazione percettiva del cittadino medio, assuefatto a tal punto da immagini e messaggi commerciali da rimanere colpito e infastidito –poiché non ne coglie il significato– da questa immagine ossessiva e ricorrente. Sui muri, sui cavalcavia, all’interno di spazi pubblicitari non ancora occupati: Obey Giant perseguita, stimola, mette in soggezione. Non è un caso dunque che per l’artista questa operazione sia un vero e proprio esperimento fenomenologico.
Ma nonostante il titolo della mostra definisca questi artisti come “magnifici perdenti”, è innegabile che gran parte di loro sia oggi protagonista di quello stesso mainstream a cui originariamente si opponeva: tavole da skateboard e gadget di ogni tipo portano la firma, inconfondibile, di writers e street artists. Molti dei video esposti sono anche commerciali, a volte veri e propri spot pubblicitari; copertine di dischi e grafiche su vinile, giocattoli e scarpe da ginnastica, dove viene però sempre mantenuta una grafica e un linguaggio efficace, duro e stilisticamente coerente.
L’esempio più eclatante di questa commistione è certamente Be@rbrick, icona della giapponese Medicom Toy Corporation, azienda guida della toy culture, le cui serie limitate –realizzate da artisti della street art- sono in Oriente veri e propri oggetti di culto.
Rimane senza dubbio l’impressione di aver visto una mostra per certi versi epocale, ricca, curiosa e fuori dal comune, centrata sulla produzione più contemporanea: una direzione che La Triennale sembra recentemente seguire (si pensi alla precedente The Keith Haring Show), e che riserverà altre sorprese.
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The Keith Haring Show
saramicol viscardi
mostra visitata il 7 marzo 2006
Beautiful Losers – La Triennale, viale Alemagna, 6 Milano
(zona Parco del Sempione – Arco della Pace) – tel. 02.724341 – fax 02.89010693
www.triennale.it – www.beautifullosers.it
Ingresso: € 8,00/5,50/4,00 – Orari: 10.30 – 20.30 – chiuso il lunedì
[exibart]
quella si che è una mostra!
grandi lavori,grandi artisti
consiglio veramente a tutti di nadarla a visitare compresi quei galleristi che continuano ancora a credere nelle favolette!!
In realtà nn è vero. Grande concept, grandi nomi, bel catalogo, alcune buone opere ma nel complesso è una gran fregatura. Lo spirito underground rimane solo una promessa, la cultura street, skate, surf, pure. In più mettiamoci che è una mostra vecchia di due anni tondi tondi, che alcuni degli artisti in mostra sono intanto diventati dei big (McGee, Templeton, Johanson, Richardson, Shepard, McGuinness, ecc.), altro che losers, che la sezione storica, con lavori dozzinali di Haring e specie di Basquiat è una roba ridicola (bastava la grande onda di Pettibon). Tutto ciò sommato ci si può ben risparmiare la strada e comprarsi invece il catalogo, per chi non lo ha ancora fatto, visto che è in giro da tempo. Tant’è che rimane che la triennale di milano, invece di farle le mostre, importa questi pacchetti scaduti, spendendo soldi a vanvera.
sui lavoretti di Haring e Basquiat ed anche la Worrolata buttata lì,ti dò ragione!
sul resto:
meglio una mostra dal vivo che solo il catalogo come ci insegna il buon De Dominicis che cataloghi non ne voleva fare!
…che poi gli altri siano diventati dei big meglio per loro vuol dire che il concetto è stato masticato.
Si può diventare dei big anche venendo dall’underground altrimenti cosa fai ground e basta?
la questione non è di big o meno big. La questione sta nella intempestività. La più parte della gente crede di vedere una roba attuale e invece sta vedendo una cosa datata. Insomma nell’arte cont. in 2 anni ne passa di acqua sotto i ponti. Secondo me è fuorviante. Da una mostra sincera è diventata uno specchietto per attirare collezionisti. E poi dai, tolta l’installazione di Templeton e qualche lavoro isolato, il resto è merda che non ha niente a che fare con il tema. Basta guardare i lavori di Johanson. Vecchi e folk. Se andavi 2 anni fa a Basilea c’era il suo stand monografico splendido, con le teorie di personaggi dentro un castello di carta. E allora se Johansson esce meglio da una fiera che da una mostra sulla street culture, c’è da chiedersi a cosa serva questa mostra. Quanto al catalogo ne facevo una questione di spirito. Non è un catalogo tradizionale e lì lo spirito sembra almeno genuino.
premetto che purtroppo la mostra non l’ho ancora vista, è da un molto tempo che aspetto un’esposizione di artisti come templeton e compagnia bella: ma se è come dice ipse…è davvero una tristezza!
se vuoi fare una mostra di quel tipo, tutte le opere DEVONO ricreare l’atmosfera underground/metropolitana e se questo non accade, purtroppo è una mostra usa e getta, che non serve a nessuno.
comunque andrò a vederla, sono proprio curiosa.
°__°