Albert scuote la testa, porta una mano alla bocca mentre sbatte ripetutamente la gamba a terra, impaziente, nel ripetuto cigolare del meccanismo che ne muove i fili. È con una delle sue marionette che
Markus Schinwald (Salisburgo, 1973) accoglie lo spettatore. I fili che la muovono nevroticamente appaiono una metafora delle pulsioni che agiscono sul corpo. In tutta l’opera dell’artista austriaco è presente una riflessione sul rapporto tra corporeità e psiche, che sfrutta forme di analisi dell’inconscio tipiche del teatro, che viene forse omaggiato dalla tenda-sipario dietro a cui sono esposti marionetta e dipinti. Nei suoi lavori, che vanno dal video al disegno, dalla scultura alla performance, Schinwald mantiene una marcata linea di continuità, riproponendo le stesse meccaniche come varianti di un medesimo canone.
È così che le protesi artificiali del video
Dictio pii (2001) si trasferiscono all’interno delle tele di chiara derivazione ottocentesca che l’artista ha restaurato e ridipinto. I ritratti sono rimaneggiati attraverso l’inserimento di protesi grottesche che rompono l’integrità dei volti, confondendo l’osservatore.
Come nei sogni, mescolano familiare ed estraneo e producono un effetto straniante che affascina e ritrae al tempo stesso. In un’altra sala, il confronto con il passato avviene tramite litografie rielaborate digitalmente. Qui sono i vestiti a diventare orpelli invasivi, che avvolgono quasi completamente i personaggi ritratti. Anche in questo caso, l’innestarsi sul corpo di qualcosa di estraneo produce una sensazione di repulsione e rifiuto da parte dello spettatore, e disattendendo le sue aspettative restituisce a immagini del passato una nuova attualità.
Le opere grafiche di Schinwald mantengono un’atmosfera inquieta e sono impreziosite da un allestimento accurato, ma rispetto alla dirompente forza di suggestione dei video rimangono qualche passo indietro, non riuscendo a intrappolare lo spettatore nel labirinto del suo immaginario.
Anche al piano superiore della galleria si guarda al passato per renderlo parte del nostro tempo. Con l’ultima tappa delle mostre del Kommando che
André Butzer (Stoccarda, 1973) ha organizzato tra Germania e Stati Uniti. Dopo Schiller, Hölderlin e Henry Ford, l’omaggio finale va a
Giotto. È arduo, ricostruire i debiti delle opere esposte con l’artista fiorentino, mentre appaiono molto più evidenti quelli con dadaismo, espressionismo e la pittura di
Baselitz e
Kiefer, tanto che la mostra si presenta esplicitamente anche come un momento di riattualizzazione dei grandi movimenti artistici tedeschi.
L’allestimento è caratterizzato dalla notevole densità delle opere, che occupano quasi completamente la superficie espositiva, presentandosi come un tutto organico, che è più della somma delle sue singole parti. Tra le opere più significative, oltre a quelle di Butzer, sono da segnalare i disegni di
Andreas Hofer (Monaco di Baviera, 1963) e i quadri di
Thilo Heinzmann (Berlino, 1969).