Ciò che sempre si nota -persino nei dipinti- dell’opera di Alfredo Chighine (1914-1974) è la costante attenzione per l’incisione. “Ottimo incisore” lo definisce infatti, nel breve saggio in catalogo, Giuseppe Ajmone -da poco scomparso- del quale forse la partecipazione a questa mostra è stata l’ultima fatica e al quale si rivolgono i commossi omaggi in apertura dell’evento.
Negli oli di Chighine, dicevamo, perfino il colore riesce a farsi incisione. Laddove infatti non appare un vero e proprio segno sulla pittura, è la stesura stessa della materia -spesso effettuata direttamente a tubetto- a creare quella trama di segni dalla quale emergono lentamente, come in un racconto, le forme-colore, così caratteristiche del pittore. Forse è la stessa passione per l’architettura romanica, che porta Ennio Morlotti ad insistere nella rappresentazione delle sue “Rocce”, a guidare la ricerca delle forme di Chighine nella prima metà degli anni
Queste trame di segni, sembrano allora farsi metafora del modo in cui l’uomo percepisce le forme. Delle modalità secondo cui si costruisce la vita e l’essenza stessa delle cose. Sempre attraverso un filtro, un “velo di Maya” che, forse, non si dovrebbe mai tentare di sollevare, per non distruggere la fascinazione e del regno che esso nasconde. Regno che, nelle opere di Chighine, emerge in un rapporto studiatissimo con sipari e quinte di segni. Così come appare studiato e controllato ogni gesto del pittore, anche il più irruente. Anche quando la materia fatta emergere in abbondanza dalla tela viene incisa di taglio con la spatola o quando la tramatura di segni si infittisce per una sgocciolatura finissima ed ossessiva, che arriva a dare, in opere come La Spiaggia (1959) la sensazione granulare della sabbia, tanto da far pensare addirittura ad alcune opere di
Sono proprio le tele della fine degli anni Cinquanta e degli anni Sessanta a tenere maggiormente il rigore e la tensione del segno, mentre le forme -di una luce tenua, grigia, tutta lombarda- risultano da un accordo cromatico calibratissimo, che fa pensare alla lezione di Nicholas De Staël. Succede poi qualcosa, nei lavori della fine degli anni Sessanta e soprattutto dei primi anni Settanta. La materia si affievolisce, le stesure si fanno sottili, il rigore geometrico svanisce. Tutto fa pensare all’acquerello, ad un bisogno di emozioni più tenere ed immediate: quasi un universo che scolora e sfuma in tenui atmosfere marine. Sono opere che forse faticano a reggere il confronto con i tempi e così, gli anni 1971, ’72,’73, potrebbero leggersi à rebours, come un conto alla rovescia fino al fatidico 1974, anno della morte del pittore.
stefano bruzzese
mostra visitata il 16 aprile 2005
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