Almeno ad una prima osservazione, l’atteggiamento complessivo dell’opera di Craigie Horsfield non sembra essere molto distante da quello neorealista. La riduzione dei colori al bianco e nero, la predilezione per un grigio opaco e low profile e le pose ingenue dei soggetti ritratti segnalano, infatti, una convergenza verso quei fotografi europei che, tra gli anni ‘40 e ‘50, documentarono meticolosamente l’epoca della ricostruzione e della trasformazione industriale del territorio.
Utilizzando la macchina fotografica più come strumento per descrivere la verità che per fini meramente estetici, quest’ultimi (Salgado, Capa, Farri…) riuscivano a trovare nell’intensità di uno sguardo, nell’assurdità di un gesto l’espressione di un dramma politico, di una trasformazione epocale o di una frattura sociale. Nel loro lavoro, infatti, non solo si verificava una netta attenuazione della creatività del fotografo che doveva limitarsi alla registrazione neutrale della nuda realtà, ma si veniva inoltre a determinare il netto primato della dimensione sociale rispetto a quella privata e individuale. Lo stesso ritratto, come potrebbero per esempio dimostrare i celebri coltivatori immortalati da Salgado veniva subordinato ad una riflessione generale sull’intera classe sociale e non la biografia privata del protagonista sorpreso dallo scatto fotografico.
Non è questo ciò che succede nelle immagini di Horsfield. Le sue fotografie per quanto restino debitrici per lo meno da un punto di vista formale di quegli insuperati maestri, riposizionano al centro dell’attenzione del medium fotografico l’individuo nella sua unicità. Al macrocosmo delle
E’ in questo orizzonte di pensiero che si muove il realismo esistenziale di Horsfield e il suo tentativo di declinare alcuni aspetti del neorealismo classico sul terreno di una coinvolgente analisi dell’irriducibile unicità di ogni singolo essere umano.
pierluigi casolari
mostra visitata il 23 giugno 2003
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Non abbiamo visto la stessa mostra, pare.
Anch'io devo aver visto un'altra mostra...