Accedendo alle sale del Museo Diocesano di Milano, una delle tre sedi della mostra dedicata a Pietro, Cesare e Vittoria Ligari, si viene accolti da uno spezzone del
Barry Lyndon di
Kubrick, che corre sulle pareti accompagnato da riproduzioni di ritratti settecenteschi e dalla musica di Mozart. Un’evocazione in grande, con due rappresentanti d’eccezione,
Barry Lyndon e Mozart, capaci di offrire uno sguardo marcatamente europeo sulle esperienze del XVIII secolo.
Superata la prima piccola sala di presentazione, le mura e un allestimento un po’ scalcinati riportano violentemente a quella che è la realtà particolare di questa famiglia di pittori, originari di un paesino nel cuore della Valtellina. E dicendo famiglia s’è già detto tutto. Perché, prima d’ogni cosa, delle esperienze lavorative, dei viaggi di formazione, della fama, è il senso di appartenenza a una famiglia e a una terra a condizionare le vicende di almeno tre generazioni di artisti.
Pietro Ligari (Ardenno, Sondrio, 1686 – Sondrio, 1752), effettuato un soggiorno a Roma dove fu allievo di
Lazzaro Baldi, uno degli ultimi epigoni della stagione cortonesca, si trasferisce a Milano quasi stabilmente dal 1710 al 1727.
Il capoluogo meneghino vive in quegli anni un grande fermento artistico. I nomi con cui confrontarsi sono quelli di
Filippo Abbiati,
Andrea Pozzo,
Andrea Lanzani, rappresentanti affermati della generazione precedente. Ci sono poi le nuove leve, come
Pietro Antonio Magatti.
Stare al passo non è facile e Pietro deve sgomitare per trovare lavoro e affermarsi, tanto che le opere più importanti realizzate a Milano sono destinate a chiese e committenti della sua terra, come
San Francesco Saverio battezza la principessa indiana Neachile (1717), primo numero certo del suo catalogo. Su un’impostazione accademizzante di matrice romana si innestano le influenze degli artisti più moderni attivi a Milano, come
Andrea Porta e il
Legnanino, da cui derivano gli squillanti accenti cromatici.
Dal 1727, amarezze a parte, Ligari si trasferisce definitivamente a Sondrio, amato e apprezzato dai propri conterranei. Eppure la stoffa Pietro l’aveva, e lo dimostrano anche i suoi ritratti, bellissimi. Il
Ritratto di Gervaso Ligari, conservato a Brera, figurava alla famosa
Mostra del ritratto italiano di Firenze nel 1911, tra le migliori prove della ritrattistica lombarda. Andrà ancora peggio per il figlio di Pietro,
Cesare Ligari (Milano, 1716 -Como, 1770). Nonostante la formazione in laguna imposta dal padre, che capisce l’importanza e l’apprezzamento che la pittura veneziana va assumendo negli anni, anche nelle committenze milanesi, Cesare fatica a trovare impiego. Sarà costretto a spostarsi, con tutta la famiglia, lavorando soprattutto a Como e nel circondario. Il
Transito di San Giuseppe (1739) è la patente con cui il pittore si presenta in patria, esibendo i frutti del suo alunnato veneziano, con rimandi a
Piazzetta,
Tiepolo e
Pittoni.
Anche dalla critica coeva Cesare non sembra molto apprezzato. Il Giovio, definendolo “
pittore più che mediocre”, gli preferiva la sorella
Vittoria Ligari (Milano, 1713 – Sondrio, 1783).
E a giudicare dalle pochissime prove a lei attribuite, a partire dall’unico quadro firmato, la
Beata Vergine Addolorata di Lanzada (Ganda) del 1756, questa avrebbe avuto i numeri per superare in bravura almeno il fratello, se la sua condizione femminile non l’avesse costretta ad accontentarsi di eseguire copie e quadretti da offrire ai committenti, spesso a titolo gratuito. Lei che, a dire dello stesso Cesare, non fu “
mai adattata alli soliti impieghi femminili, benché anche l’ago lo eserciti in vigore”.