Rendere concreta e visibile l’ansia metafisica comune a tutti gli esseri umani. Questa l’impresa impossibile con la quale si è cimentato Gianfranco Ferroni (Livorno, 1927 – Bergamo, 2001) lungo tutta la sua vita pittorica. Lo celebrano ora, a sei anni dalla morte, le sue due città adottive: Milano e Bergamo.
Ferroni ha attraversato molte fasi, sempre instaurando dialoghi proficui con il sentire degli anni che stava di volta in volta vivendo. A partire dagli anni del Realismo Esistenziale, nei quali alterna ritratti corposi ad altri scomposti, “post-atomici”. È qui evidente il gioco di rimando con l’Espressionismo Astratto e soprattutto con l’Informale, declinato nella sua versione più angosciante e legata alla materia, che rappresenta metaforicamente l’etereo e l’impalpabile.
Segue una straordinaria stagione Pop nella quale l’artista declina le proprie visioni precedenti in chiave più piatta e cromaticamente definita. Entrano sulla tela segni della società dei consumi, in particolare i rifiuti, gli scarti. Questa stagione produce poi anche i dipinti raffiguranti la metropolitana milanese, quasi un penchant italiano dei cinema di Colin Self, grande della Pop inglese.
Gli oggetti di scarto, ormai inerti e inutilizzabili, caratterizzano anche l’ultima fase di Ferroni. In essa il pittore produce visioni del proprio studio vuoto di presenza umana: lo popolano solo il cavalletto, oggetti posti sul tavolo, addirittura mozziconi sparsi sul pavimento. Inoltre, i lenzuoli ferroniani, vere e proprie sindoni laiche, simulacri allestiti da un uomo che sembra ormai presentire la propria morte. Ferroni è artista che ha il coraggio estremo di rappresentare la propria figura (s
Milano ospita Ferroni a Palazzo Reale, in sale che, solitamente inadeguate, prendono vita e luce grazie alle opere. In mostra sono esplicitati i confronti con gli altri artisti con cui egli intersecava la sua poetica. Peccato che di Hockney, Freud, Blake e degli altri siano presenti opere minori; e proprio l’inadeguatezza delle opere “di confronto” ha determinato il ritiro di Marco Vallora dalla curatela della mostra milanese, motivato in catalogo da un documentatissimo e sentito “lamento” scritto dal critico.
Se Milano opera antologicamente, Bergamo, nella mostra organizzata dalla GAMeC, sceglie il taglio analitico trasversale. L’allestimento di Mario Botta –davvero indimenticabile- consente di mettere a confronto quindici “stanze” e quindici “autoritratti”, contornati dal resto della mostra. Vengono poi esplorate in entrambe le mostre la pratica incisoria e quella fotografica, entrambe di valenza assoluta ed autonoma. Le due mostre intendono costituirsi come definitiva affermazione di Ferroni presso pubblico e critica; e la mostra di Milano costituisce un punto fermo e di grande riuscita nella travagliata ma propositiva Bella estate dell’arte predisposta dall’assessore Sgarbi.
Un’ultima segnalazione: entrambe le mostre sono corredate da cataloghi-gioiello; quasi due manuali di scrittura critica applicata, soprattutto per quanto riguarda i testi di Marco Vallora e la sua intervista a Luca Ronconi. Due mostre e due cataloghi per conoscere definitivamente uno dei grandi del nostro dopoguerra.
stefano castelli
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Incantevole e ottimo presentazione delle opera.
Passare dalla mostra di botero a Ferroni è sembrato di uscira dal supermercato per entrare in chiesa.