La cosa più difficile da afferrare, se si cerca di inquadrare
Clegg & Guttmann (Michael Clegg, Dublino, 1957; Martin Guttmann, Gerusalemme, 1957; vivono a New York e a Vienna), è la versatile ambiguità della loro ricerca. Affascinati dalla pratica artistica più fredda e strutturale (quella di chi, come il loro maestro
Joseph Kosuth, ne vuole evolvere il linguaggio, o perlomeno misurarcisi), i due artisti indulgono contemporaneamente in fronzoli estetici che ne delineano un gusto e uno stile molto caratterizzato, in contrasto con il minimalismo e l’asetticità spesso associati all’arte concettuale.
L’asetticità non è tuttavia estranea alle loro installazioni. Ma invece di essere un vuoto estetico riempito dalle proprietà del white cube, si tratta di un certo gusto per il materiale, il colore, un’atmosfera precisa. È un gioco, così com’è ammiccante la finzione implicata dai fondali stampati dietro ai soggetti ritratti nelle loro fotografie, che strizzano però l’occhio alla tradizione fiamminga, oppure l’affettazione nostalgica della presenza scultorea delle librerie che espongono ormai da anni.
“Sculture sociali” o “ritratti comunitari” che siano, le installazioni nello
Studiolo di Clegg & Guttmann evocano immagini di scuole all’antica, intellettuali severi, sovrani illuminati, Freud e
Leonardo da Vinci. Ciascuna è una struttura in legno, pulita e precisa nel taglio, atta a servire una precisa funzione, un esercizio cognitivo che uno o più fruitori dovranno svolgere insieme o da soli. Spaziano dall’esercizio musicale (
Il Canone,
La musica della sfera) a quello tattile (
L’oggetto nascosto,
Cinque ciechi).
A partire dal verde-ospedale con cui sono dipinte le pareti della galleria (a dire il vero, la tonalità è più scura) e dai camici appesi al muro, fino alla coatta scomodità dei fori per braccia e testa di
Il canone, attraverso i quali il visitatore dovrebbe inserire i propri arti per suonare un mandolino davanti agli astanti, si capisce che la permanenza nello studiolo sarà un po’ strana.
La partecipazione non è qualcosa di a-gerarchico, aggregativo, come nell’arte relazionale di
Rirkrit Tiravanija, ma un’interazione proficua, una ricerca della conoscenza attraverso un dislocamento, la creazione provvisoria di ruoli contrastanti. Esaminatore ed esaminato, manipolatore e manipolato, ascoltatore e ascoltato. Le dinamiche che scaturiscono da queste sculture sociali sono più umaniste che umane. In particolare, la concezione illuminista del libro come espressione dell’individuo presente nella
Libreria piramidale dà senso al concetto già citato di ritratto comunitario.
Nonostante le ambiguità, che lo rendono più interessante, l’allestimento della mostra è solido. L’unica pecca è il riflesso delle stampe fotografiche laminate che scandiscono lo spazio espositivo, il quale stride un po’ con la pacata legnosità del resto, pur facendo perfettamente da
eye candy per i collezionisti.