Una mostra-gioiello, quella da Curti. Una mostra giocata in sottrazione, dove predominano il bianco delle pareti e quello che riempie gli spazi tra le linee del disegno. Il segno è costretto a insinuarsi verso lo spettatore, con sensualità che diventa fragorosa e crea echi che durano per un tempo indefinito. D’altra parte,
insinuarsi è uno dei mezzi principali per sedurre, e
Andy Warhol (Pittsburgh, 1928 – New York, 1987) è maestro di sensualità. Una sensualità algida, certo, che confina con la sparizione dell’oggetto del desiderio e con la morte, ma proprio per questo vera e quindi durevole.
La serie di disegni sulla grande ballerina
Martha Graham costituisce un’eccezione nei paradossalmente funerei anni ‘80 di Warhol, costellati da autoritratti mortiferi, coltelli, pistole e
Ultime cene in svendita a 6,99 dollari. Qui il tratto è quello della leggerezza e dell’elevazione e l’artista americano torna alla base, a un disegno che ricorda gli schizzi d’occasione di
Matisse o
Picasso, delineando un mondo che ormai sembra quasi ingenuo.
La partita si gioca non nei contorni della figura, ma nelle intersezioni tra le varie parti del corpo, nelle curve del vestito e nel suo decoro minimale: negli interstizi insomma, nei cascami direbbe forse Beckett, dove la vita vera accade, festosa e lieve proprio perché conscia della malinconia.
Warhol conobbe Graham, innovatrice della danza moderna,
“
la danzatrice del secolo” secondo il “People”, nel 1979, anche se aveva assistito a un suo spettacolo già nel 1948. I tredici disegni della serie, poi utilizzati per un portfolio d’incisioni, gli furono commissionati nel 1986 dal Martha Graham Center of Contemporary Dance, nel 60esimo anniversario della scuola. Un’occasione ottima per Warhol per dichiarare l’ammirazione che aveva per la ballerina, col suo solito candore da fan che arriva al transfert, alla sovrapposizione di se stessi alla persona ammirata.
Fedele alla dichiarazione “
desidero essere le persone che amo”, è questa una strategia per tollerare l’alienazione accentuandola, annullandosi per proiettarsi nella persona ammirata. La mostra raccoglie quasi tutti i disegni originali a matita, più due disegni del 1981-82, non dedicati alla Graham ma raffiguranti semplicemente un paio di scarpette da danza. Sono i due pezzi più classicamente warholiani della mostra, in cui l’oggetto campeggia da solo e funge da sostituto della persona, più vivo e significante di essa.
Godetevi a fondo questa piccola esposizione, in cui è facile perdersi. Prima o poi, purtroppo, bisogna uscire, abbandonando la levità ammorbante che sale da questi disegni. E tornando nel misero “nuovo millennio”, in cui le icone del divismo e della proiezione identitaria omosessuale non si chiamano più Graham, ma con mille altri cognomi che conosciamo fin troppo bene.