Un’arte fatta di ripetizioni, dominata dalla quantità: questo è l’intimo desiderio di
Andy Warhol (Pittsburg, 1928 – New York, 1987). La quantità è il nuovo criterio di valore della società tecnologica che vuole tutto riproducibile, quantitativamente notevole, secondo la logica della produzione e del consumo di massa. Un valore che mal si concilia con i concetti di autentico e di qualità dell’opera d’arte, che qualificavano la tradizione artistica precedente. La serialità e la riproduzione meccanica conducono l’artista ad agire secondo le leggi che governano il mondo della macchina: celebre è ormai l’espressione warholiana “
I want to be a machine”, che suona come una dichiarazione programmatica .
Repetition è il titolo chiamato a dar voce alla mostra dedicata a Warhol dalla galleria milanese Lampertico, dove si presentano integralmente 4 portfolio degli anni ‘80:
Hammer and Sickle,
St. George and the Dragon – riflessione sull’arte del Rinascimento -,
Sex Parts e
A is an alphabet. Esposti anche due lavori dedicati a
Joseph Beuys, in cui il volto dell’artista tedesco – fisso, straniato, bidimensionale – è reiterato quattro volte su ogni foglio, e dove l’ossessiva iterazione innesca un processo di estraniazione del soggetto riprodotto.
Non stupiscano le scelte stilistiche qui operate dall’artista: il leitmotiv delle icone warholiane prevede volti accattivanti, seducenti, segnati da un maquillage invadente e da scelte cromatiche audaci, aggressive. Un colore non per naturalizzare il soggetto, ma per derealizzarlo: ecco che i ritratti, più che fedeli documenti del presente, divengono icone, miti del tubo catodico affetti dal “morbo” del contorno impreciso, sfalsato.
A completare la mostra, due serigrafie appartenenti al portfolio
Shoes e due tratte dal portfolio
Shadows, di estrema raffinatezza tecnica: una ricopertura della superficie cartacea con uno strato di polvere di diamanti a ricordare, ancora una volta, il lussuoso quanto effimero mondo della merce.
Nonostante il fruitore intrattenga con questo un rapporto di familiarità visiva, reso possibile dall’invadenza dei mass media, la collocazione del soggetto in uno spazio anonimo, decontestualizzato, lo associa alle icone sacre, allontanandolo dalla sfera del quotidiano. La sua epifania improvvisa non si situa nel naturale corso della storia, ma rimane piuttosto sospesa in una contemporaneità illimitata, dove l’attimo presente risulta dilatato, intensificato, generando “un’ipertrofia del presente” che recide i legami con passato e futuro per suggerire uno spazio e un tempo eterni.
E nonostante Warhol professasse “
il massimo del prodotto con il minimo di soggettività”, la sua presenza interferisce di continuo attraverso scelte personali quali segni di contorno, sfondi, ritocchi. Così le sue continue incoerenze riescono a persuaderci che proprio “oltre” la decantata superficie si celi il senso che l’artista sconfessava.