È impossibile rimanere indifferenti di fronte ad un’arte capace di scandagliare il valore di una spiritualità che supera ogni definizione religiosa per porsi come puro elemento in grado di permeare la funzionalità laica di un semplice luogo espositivo.
Un’arte che Gianfranco Ferroni (Livorno, 22 febbraio 1927 – Bergamo, 12 maggio 2001), dopo un’importante militanza milanese all’interno del “Realismo esistenziale” ha saputo coniugare ad una esistenza carica di dolore e desolazione. E per scandagliare questa amara condizione esistenziale, l’artista compie una piena trasfigurazione nei confronti di un reale che nella dimensione più quotidianamente dimessa rivela la propria intensità, immersa in uno spazio intangibile e mistico.
Analizzando le opere, esemplificative di tutta la sua produzione, risulta evidente questo costante lavoro di scavo interiore, che nella limpida dialettica fra luce e spazio trova modo di manifestare “l’illuminante naufragare del microcosmo nel pulviscolo dell’immenso”, attraverso un gioco sfumato di filamenti metafisici.
Osservando i suoi “altarini laici”, armonici nella loro composta alternanza di pieni e vuoti, si può notare come un cavalletto, una ciotola nera, un panno stropicciato, le pieghe di un
E l’unico luogo in cui, secondo l’artista, può avverarsi questa sfuggente rivelazione rimane “camera magica delle apparizioni, teatrino del proprio lavoro (o pensiero)”, luogo di verità assoluta impietosamente scandagliato da una luce “luccicante e luciferina”, pronta ad immortalare il miracolo di una verità irripetibile, impalpabile ed incorruttibile nella sua atemporalità.
Naturalmente, per apportare un così profondo messaggio ad un mondo talvolta sordo ai richiami poetici e spirituali, Ferroni si avvale di cromìe soffuse, consapevole che, per raggiungere il nitore di una limpida composizione intellettuale, non è necessaria la violenza urlata di una sfacciata espressività.
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