Marcello Maloberti (Lodi, 1966) è un po’ come Odisseo. Polìtropo. In tutte le sue accezioni: dall’artista dotato di ingegno versatile e multiforme, all’astuto e tortuoso ingannatore che all’altrove guarda perennemente.
La sua “Sbandata” ha il potere di inspirare, ma anche di eludere, di instillare il dubbio: Bisogna credergli sempre o non credergli affatto? Risuona nella testa l’oscura esortazione della guida Roberto Carozzi che, nelle vesti di abile prestigiatore e potente narratore, materializza il ciclo di affreschi di Lorenzo Lotto della Cappella Suardi all’interno della mostra (“Cicerone”, Installazione sonora, 2018).
“Non si può credere subito a quello che si vede perché ci può essere l’inganno, ma cercare di capire e comprendere con gli occhi e la mente di Saturno”.
Dunque, traslando l’enigma di queste parole, cosa si crede osservando le Marmellate (serie di collage, 2018) o le Martellate (scritti fighi, 1990-2018) che abbattono perfino le pareti, contaminando i magazzini della Galleria Raffaella Cortese, e i ritagli del Trionfo dell’Aurora che, invadendo il pavimento di via Stradella al 4 con cupole, soffitti e affreschi, sovvertono il sopra in sotto e permettono di essere calpestati e rimescolati da piede mortale? Il pavimento, sicuramente, è più generoso del muro (M. Maloberti, Martellate Project).
Quando si è avvolti da questo vortice, si avverte qualcosa di simile ad una spirale di fuoco, ispirazione, sacralità e nondimeno “stupidità, profonda e complessa” (M. Maloberti). Come in Ecorché (2018) – lo scorticato – il cui rimando alle illustrazioni anatomiche rinascimentali confonde e disorienta perché quello che appare è un ritratto fotografico di Maloberti, abito nero e papillon, in una posa allegorica e maestosa, immerso sorprendentemente nella realtà urbana. E come nella rotta tracciata per la mostra dal grafico Alessandro Gori, attraverso un simbolo arcano che è insieme mappa dell’immaginazione e della mente e geografia senza distorsioni. E come nelle annotazioni visive del curatore Pier Bal-Blanc, semionauta (N. Bourriaud, Postproduction) che produce percorsi originali tra immagini attuali e figure antiche.
Marcello Maloberti, Sbandata, vista della mostra
“Sbandata” è una virata verso il classico dal carattere mercuriale, tratto distintivo di Maloberti/Odisseo. L’idea diffusa di un “classico” atemporale e immutabile è bandita, a favore di un audace sincretismo che (si) contraddice, mescola ed esplora le sfaccettature. Attraverso l’impiego de “la tecnica dello straniamento” (S. Settis, Futuro del “classico”), nella direzione sia di un “altrove” temporale che di un “altrove” spaziale (Vir Temporis Acti India, 2018), Maloberti svela la forma ritmica, il potenziale meditativo insito nella circolarità in perfetto accordo con una struttura multilineare, il senso dell’attesa e dell’assenza. Perciò crediamo di intuire qualcosa, precisamente nella spola tra identità e alterità, tra basso e alto, tra fregio e mosaico pavimentale, tra unità e frammentazione, infine tra efebica perfezione e ibrido. Crediamo appunto, perché nel détournement si cela il tranello. Un rapimento d’amore o vento caldo, un flusso improbabile di ritagli e accumuli, un montaggio “gioiosamente inutile e imperdibile”, di cui scrissero con grande acutezza Carlo Antonelli e Andrea Lissoni nel testo critico per la performance Tagadà (Galleria Raffaella Cortese, 2007). In quest’ottica, l’ipnosi della “sbandata” dapprima scuote, poi intrappola in un anello di Saturno e così la scena estatica scardina, ma anche ri-crea e perpetua il gioco delle forme.