Ci sono cose, si sa, di cui non è facile parlare. Ci sono realtà cui si preferisce non guardare in faccia, persone che si tende a lasciare ai margini della propria coscienza. Come gli anomali, i transessuali, i transgender. Quelli la cui identità è continuamente, per destino o per volontà, sottoposta a trasformazione. La mostra Transformation, collettiva curata da Gianluca Marziani negli spazi industrial-chic della neonata StragapedePerini, raccoglie quattro giovani artisti italiani con la vocazione all’anomalia, e chiede loro di raccontare il mutamento identitario, sessuale, biologico.
La prima a raccontarci la vita con uno sguardo di plastica pop è EPVS, artista romana dall’ottica lucida e disincantata, ironicamente erotica e fintamente sensuale. I suoi sono scatti fotografici, con protagoniste le Barbie, bambole senza cuore ne anima. Ma con un corpo. Un corpo assurdamente perfetto, con colori di caramello e sorrisi eterni, capelli lucenti e pose incorruttibili. Su di loro l’obiettivo del fotografo scivola con inquadrature atipiche, con luci artificiali, con colori saturi e espressioni provocatorie. Immagini di corpi femminili, si contorcono, si piegano, ammiccano con ironia. Gli arti si muovono, si spostano, si trasformano. Giocano con se stessi proprio come fanno i transessuali: giocano con la loro identità. Una metafora per sdrammatizzare, per sentire meno il peso di un dolore, di un’emarginazione, di una scelta difficile. Troppo. Affrontano il tema altri due artisti presenti in mostra, ciascuno con la propria cifra stilistica. E qualcuno con la forza dell’esperienza personale. Da un lato, l’irrisione giocosa, teatrale, colorata, delle statue di cartapesta di Giuseppe Martino.
Gruppi di personaggi assolutamente spiazzanti, perversi, eccessivi, riportano alla mitologia classica, al pop attuale, addirittura alle sacre scritture cristiane con una comicità dissacrante che si ferma appena prima della volgarità. Tutt’altro approccio, quello di Lucia Leuci. Più profondo, più sofferto, più vero. Con un falso tentativo di delicatezza nello sfumare i contorni, nell’alleggerire i colori con il rosa, nel coprire i volti con maschere di Kubrickiana memoria. Ma la realtà raccontata è sempre quella, dolorosa e malinconica, della transessualità. E la si trova nell’immagine patetica di quell’uomo in abbigliamento intimo femminile, che vuole essere qualcosa che si sente ma che ancora non è. “…e a raccontargli che è nato maschio sarà l’istinto, sarà la vita”, cantava Fabrizio De Andrè in Princeza.
Completamente diversa, infine, la ricerca di Roxy in the box, artista che allo studio dei corpi sembra preferire quello sulla società pop e consumistica, sui prodotti e sulla pubblicità.
Ma che si mantiene legata al filo conduttore della mostra tramite l’ironia, il sarcasmo, ancora una volta il gioco. Il gioco assurdo di questa vita che ha tante, troppe sfaccettature per non far riflettere sulla loro trasformazione.
barbara meneghel
mostra visitata il 6 aprile 2006
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