Figlie dell’interesse di
Man Ray per il potenziale creativo del
rayogramma
e
dei suggerimenti di
Moholy–
Nagy sulle velleità “pittoriche” del fotogramma, le tendenze
astrattiste in fotografia sembrano radicarsi proprio nell’infanzia del mezzo,
tra le immagini idealizzate delle origini e gli “oggetti melancolici” del
surrealismo. Nel percorso storico proposto dal Museo di Fotografia
Contemporanea l’astrazione appare paradossalmente come la migliore asserzione
della vita, che distaccandosi dai soggetti lirici cerca di suscitare
direttamente una risposta dalle cose.
Le sperimentazioni fotografiche raccolte in mostra si
nutrono delle parallele indagini della “poetica della materia”, cercando di
sventare il pregiudizio che la fotografia sia più realistica di altre tecniche
artistiche. Testimonianza eloquente è la serie giovanile di
Olivo Barbieri che lavora sul potenziale della macchia – ispirato al surrealismo letterario –
coniugandolo alla tecnica scultorea della
brûlure, i cui effetti di colatura e
fusione avvicinano le pellicole all’estetica delle
Plastiche di
Burri.
L’astrattismo fotografico del Novecento si mette
a
latere del
paradigma mimetico e inizia a guardare attentamente l’oggetto comune per far
emergere da esso un “altro” oggetto, scoprendo nella banalità più di quanto si
immagini.
In questa prospettiva, gli scatti di
Franco Fontana operano una riduzione dei paesaggi al loro “grado zero”,
mettendo a frutto la forza del taglio fotografico per estrarre dalla natura la
sua struttura geometrica e la sua cromia
naïve. Immancabile
Mario Giacomelli che, in stampe dall’apparenza tipografica, sottopone il
paeaggio rurale coltivato, sempre agguantato dall’altro, a uno sguardo
analitico e matematizzante.
Fuori dalla retorica del fotografico, l’astrazione
edifica, grazie ad azioni trasformative e a nuove identificazioni, delle architetture
istantanee che corrispondono a una liberazione dell’inconscio dell’immagine e
all’inaugurazione di un nuovo
ethos per la fotografia. A trarne giovamento è la ricerca
formale: oltre alla difrazione delle forme naturali di
Paolo Monti e alle registrazioni cromogeniche delle trasparenze di ombre-oggetto
di
Luigi Veronesi, la mostra propone le immagini selettive di
Aaron Siskind, le cui
formes trouvées, dalle superfici friabili e
crepuscolari, vengono scandite da un procedimento ritmico.
La rapsodia dell’astrazione fotografica costituisce una
serie divergente nel procedere storico della
fine photography: segue un’iperbole autonoma che,
dall’analogico al digitale, cerca di incamerare le suggestioni del formalismo,
dell’
action e
del
color field painting americani (le rothkiane trasposizioni fotografiche di
Silvio Wolf) o degli italiani studi matrici, costruendosi
contemporaneamente una storia parallela alla grafica e alla “nuova tipografia”
di cui registra le evoluzioni (i chimigrammi e i pirogrammi di
Nino Migliori).
Nel tentativo di annullare l’aspetto “meccanico” e
puramente riproduttivo della fotografia, l’astrazione arriva a conoscere così
bene il proprio medium che inizia a forzarlo, pur attenendosi perfettamente
alle sue regole.