Innanzi tutto un rimpianto. Questa Sacra Famiglia di Andrea Mantegna (Isola di Carturo 1431 – Mantova 1506) è comparsa sul mercato antiquario nel 1986; non è stata acquistata da uno dei nostri musei ma dal Kimbell Art Museum di Fort Worth, Texas. Un museo non nuovo ad exploit di questo genere visto che dal finire degli anni Ottanta ha arricchito le proprie collezioni con opere di Beato Angelico, Sebastiano del Piombo, Tiziano.
È un peccato che ancora una volta l’Italia abbia perso l’occasione di riportare a casa l’opera di uno dei suoi grandi maestri. Prima di arrivare al Kimbell il dipinto era in una collezione privata, tra i meno conosciuti di Mantegna, ma è davvero straordinario. Non resta che approfittare della sua temporanea presenza al Diocesano che lo espone nell’ambito dell’iniziativa Un capolavoro per Milano giunta alla quarta edizione.
La piccola tela è dominata dalla figura del Bambino che svetta sulle gambe di Maria come un “Ercole fanciullo” (Marini) in una plastica posa da scultura classica. Il gesto infantile con il quale si aggrappa alle mani della mamma contrasta con l’espressione seria e consapevole degli occhi. Le figure emergono dal fondo scuro che ne scandisce i profili; è l’umanità solida e maestosa di Mantegna anche se i tratti dei visi risultano addolciti da un lieve chiaroscuro, una morbidezza tonale che la critica attribuisce all’influenza del giovane cognato Giovanni Bellini. Sarà l’eco lontana della pittura veneziana o forse la destinazione privata di quest’opera, i personaggi della Sacra famiglia non sono gli “uomini lapidei” (Longhi) così tipici di Mantenga, la resa dei panneggi è più fluida e naturale. La morbidezza è accentuata dall’uso di una tavolozza fatta di gialli brillanti e rosa corallo e nulla toglie alla maestosità delle figure che hanno la “grandezza della classicità” (Bianchi).
Il messaggio teologico è chiaro: Maria mostra al mondo l’umanità del figlio Gesù. Mantegna vi si sofferma e poi va oltre; c’è una circolazione di affetti che affascina lo spettatore, un’intimità tutta umana sottolineata dal suggestivo gioco di sguardi che lega tra loro i personaggi. Tutti tranne Giuseppe, quasi nascosto dietro Maria ha lo sguardo perso lontano in uno spazio che oltrepassa i limiti della tela.
L’accurato restauro eseguito nel 1987 ha confermato l’autografia del dipinto; resta incerta la datazione. Le ipotesi sono due: il 1485 oppure gli ultimi anni del 1400. I sostenitori della tesi 1485 identificano l’opera con il dipinto citato nel carteggio tra Francesco Gonzaga e Eleonora d’Aragona. La duchessa aveva visto in lavorazione nello studio di Mantegna “una Madonna cum alcune altre figure” di cui chiedeva notizie al Gonzaga nel 1485. Chi propone una datazione più avanzata fa riferimento alle analogie formali con le opere realizzate sul finire del secolo in particolare con l’Adorazione dei Magi del Getty Museum di Malibu (circa 1497).
In effetti le affinità con questo dipinto sembrano tali da fugare molti dubbi. Maria nell’Adorazione indossa un copricapo molto simile a quello di Santa Elisabetta del Kimbell; il suo abito nelle due opere è identico, una tunica rossa bordata d’oro con un manto blu, identiche le aperture sulle maniche dalle quali si intravede una sottile veste bianca. In entrambi i dipinti la Madonna ha occhi dal taglio lungo e sottile. Le ciocche di capelli che incorniciano il viso di Gesù del Kimbell sono molto simili a quelle della capigliatura di Giuseppe di Malibu. Anche l’espressione concentrata e malinconica di Giuseppe-Kimbell ha un pendent in quella del Mago più vicino a Maria nell’Adorazione il cui sguardo è ugualmente intenso e lontano dalla scena di cui è parte.
Importante nel mondo accademico, la questione della datazione è meno rilevante per il pubblico che sarà affascinato dalla suggestiva bellezza di quest’opera.
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